Cosa accade se fallisce uno dei contraenti del contratto di locazione (le conseguenze del fallimento nella locazione)?
Il fallimento produce rilevanti ripercussioni anche sul contratto di locazione (fallimento nella locazione), che le parti non possono prevenire mediante apposite pattuizioni, essendo la materia rigorosamente disciplinata dalla legge.
La materia è disciplinata dall’art.80 della legge del 16 marzo 1942, n.267, che di recente ha subito un’integrale revisione (essendo stato sostituito dall’art. 66, D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, portante la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della l. 14 maggio 2005, n. 80).
Bisogna comunque distinguere, a seconda che a fallire sia il locatore oppure il conduttore.
Fallimento del locatore.
Nel testo previgente, la norma citata sanciva che “il fallimento del locatore – salvo patto contrario – non scioglie il contratto di locazione d’immobili, ma il curatore subentra nel contratto“.
Nonostante il tenore letterale della norme, si riteneva diffusamente che la previsione del “patto contrario” fosse inapplicabile ai rapporti disciplinati dalla legge 392/78, stante il dettato degli art.4 e 41 di quest’ultima, i quali sanciscono la nullità della clausola di risoluzione del contratto in caso di alienazione della cosa locata. In effetti siffatta clausola era considerata analoga al “patto contrario” di cui all’art.80 della legge fallimentare, la cui operatività veniva dunque bloccata dalla legge sulle locazioni (adottata in epoca successiva) per i rapporti da essa regolati, rimanendo in essere esclusivamente per le locazioni rette dal solo codice civile.
Il testo attuale dell’art.80 citato ha visto l’eliminazione dell’inciso che prevedeva – seppure nei limiti anzidetti – la possibilità di un “patto contrario”: pertanto, è oggi pacifico che, al fallimento del locatore, consegue il subingresso del curatore nel rapporto. La locazione, dunque, prosegue.
Ciò nonostante, il contratto di locazione può comunque essere soggetto all’azione revocatoria fallimentare (di cui all’art.67 della legge 267/1942 nonché all’art.10 del decreto legislativo 20 giugno 2005, n.122), la quel colpisce gli atti, diretti a violare la par condicio creditorum, che siano stati posti in essere fra le parti quando già sussisteva l’insolvenza dell’imprenditore poi fallito.
Sancisce ora l’art.67 della legge fallimentare (nel testo novellato dal comma 1 dell’art.2, D.L. 14 marzo 2005, n. 35), che sono revocati – salvo che l’altra parte provi che non conosceva lo stato d’insolvenza del debitore – gli atti a titolo oneroso compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso. Prosegue poi la stessa norma, sancendo che sono altresì revocati – se il curatore prova che l’altra parte conosceva lo stato d’insolvenza del debitore – i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili nonché gli atti a titolo oneroso, se compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento.
La giurisprudenza ricollega un effetto costitutivo alla sentenza che accoglie l’istanza di revocazione formulata dal curatore. Il rapporto giuridico, a suo tempo validamente instauratosi solo tra le parti, risulta privo di effetto nei confronti dei creditori a far data dalla proposizione della domanda giudiziale di revoca. Così le Sezioni Unite della Cassazione (13 giugno 1996, n.5443, in Fallimento, 1996, p.999; la dottrina propende invece una diversa soluzione: per tutti FERRARA, Il fallimento, Milano, 1989, p.375).
Le ragioni economiche sottostanti l’azione revocatoria sono alquanto evidenti: vedendo profilarsi all’orizzonte il proprio fallimento, il proprietario di un immobile è magari indotto a locarlo a terzi ad un canone decisamente esiguo, cercando di procurarsi così uno dei seguenti benefici: la disponibilità dei locali per il futuro (locandoli ad un soggetto di comodo, che poi consentirà al fallito di continuare ad usarli) ovvero un guadagno immediato da occultare ai propri creditori (ciò mediante la corresponsione di una somma di denaro “sottobanco”).
In ultimo, questi principi sono stati ribaditi dalla Cassazione nella sentenza dell’11 novembre 2003, n.16905:
“come chiaramente si evince dal disposto dell’art. 80, comma 1, L. fall., al curatore del fallimento del locatore non è data la potestà di sciogliersi dal contratto in corso alla data del fallimento medesimo. Egli dunque, nell’immediato, necessariamente prende il posto dei fallito nel rapporto contrattuale pendente. Ciò, tuttavia, non toglie che il medesimo curatore, in quanto rappresentante dei creditori e tutore del loro interesse, possa poi esercitare l’azione revocatoria contemplata dal precedente art. 67, ove sussistano le condizioni previste in quest’ultima norma per far dichiarare inopponibile alla massa il contratto stipulato in epoca anteriore al fallimento (in tal senso già Cass. n. 366 del 1996). Nel qual caso, pertanto, egli resta tenuto al rispetto degli obblighi contrattuali, fin quando essi non vengano paralizzati dalla sentenza che accolga la sua domanda revocatoria, e l’effetto costitutivo tipico di tale sentenza non mette in questione il fondamento giuridico delle prestazioni precedentemente eseguite in corso di contratto”.
Nella medesima sentenza, i giudici hanno anche chiarito che la revoca del contratto di locazione non pregiudica la validità dei pagamenti effettuati dal conduttore in favore del locatore poi fallito. Pertanto, la revoca legittima solo il curatore a pretendere la libera disponibilità del bene locato ed il risarcimento dei danni per l’occupazione del bene in epoca successiva alla data in cui la revoca stessa è pronunciata (danno da determinarsi avendo riguardo ai valori correnti del mercato delle locazioni, indipendentemente dall’ammontare del canone originariamente pattuito).
“i principi che la giurisprudenza di questa corte è andata da ultimo elaborando, in tema di azione revocatoria fallimentare, e che qui si ritiene di dover confermare.
Tale azione, al pari della revocatoria ordinaria, è volta unicamente a far dichiarare inopponibili ai creditori quegli atti che abbiano interessato il patrimonio del debitore in un determinato arco di tempo anteriore al fallimento compromettendone la funzione di garanzia generica dei crediti. La validità originaria di quegli atti – e dunque la loro liceità – non è messa in discussione, né in essi è da ravvisare un vizio che ne determini la caducazione (vedi in tal senso, tra le più recenti, Cass. n. 8419 del 2000, sulla scorta delle pronunce di Sez. un. n. 5443 del 1996 e n. 437 del 2000, in tema di revocatoria di pagamenti). Conseguentemente, fin quando il curatore non eserciti il diritto potestativo attribuitogli in materia dalla legge, e non proponga la domanda di revoca dell’atto negoziale, questo produce legittimamente i propri effetti; e la sua inopponibilità al fallimento, lungi dall’essere originaria, si determina solo in virtù della relativa pronuncia giudiziale, con effetti che non possono retroagire oltre il momento della proposizione della domanda. Né tali principi paiono dover soffrire deroga nel particolare caso della revoca per sproporzione delle prestazioni in danno del fallito, previsto dall’art. 67, comma 1, n. 1, L. fall.: sia perché la natura e la caratteristiche dell’azione revocatoria sono in tutti i casi le medesime, sia perché il requisito della sproporzione ha qui solo la funzione d’invertire l’onere della prova in tema di “scientia decoctionis”, ma, di per sé sola, non basta ad attribuire un originario connotato di illiceità al contratto che le parti abbiano stipulato prima del fallimento di una di esse, contratto il cui contenuto economico resta pur sempre liberamente determinabile dai contraenti (salva, ovviamente, l’eventuale esistenza di altri vizi, genetici o sopravvenuti, rilevanti a termini della disciplina generale dei contratti, di cui però non è questione in questa sede).
Ciò significa che, pronunciata dal giudice la revoca di un contratto di durata, qual è la locazione, il conduttore non può ulteriormente opporre al fallimento il proprio titolo contrattuale di godimento del bene locato; bene di cui il curatore potrà perciò riacquisire la libera disponibilità (come nel presente caso è, infatti, accaduto).
Significa, inoltre, che l’eventuale protrarsi del godimento del bene da parte del conduttore, a partire dal momento in cui il contratto ha cessato di esser opponibile al fallimento (momento che deve identificarsi con quello di proposizione della domanda, cui retroagiscono gli effetti costitutivi della pronuncia giudiziale), non trova più idonea giustificazione causale – nei riguardi del fallimento – nelle previsioni del contratto medesimo: di modo che, a partire da quel momento, il curatore ha titolo per protendere la corresponsione di una somma idonea a compensare il fallimento del mancato godimento del bene in questione, senza necessaria correlazione con l’ammontare del canone pattuito, come tale non più opponibile alla massa.
Non significa anche, però, che sia travolto il precedente segmento contrattuale, ormai già esaurito alla data della domanda medesima, perché gli effetti prodotti dal contratto in quella fase anteriore si situano in un regime di piena validità ed assoluta opponibilità. Rimettere in discussione quegli effetti equivarrebbe a togliere fondamento, sin da principio, al vincolo contrattuale in base al quale essi si sono prodotti; e comporterebbe – come infatti ha comportato nell’impugnata sentenza – oltre che la revoca del rapporto contrattuale per l’avvenire, la sua sostituzione, per il passato, con un rapporto di contenuto economico diverso, di fonte giudiziaria, destinato a sovrapporsi a quello a suo tempo disegnato dalla parti. Il che non pare coerente con la funzione e con i principi generali dell’azione revocatoria, come sopra ricordati”.
Applicando tali principi nella sentenza 21 giugno 2000, n.8419, la Suprema Corte ha rilevato che, qualora nelle more del giudizio inteso alla revoca del contratto di locazione di un immobile, questo venga alienato, viene meno per il fallimento la possibilità di sottoporre ad esecuzione concorsuale l’immobile libero dalla locazione (realizzando così l’eventuale maggiore prezzo) e viene perciò a mancare l’interesse della procedura rispetto alla dichiarazione di inefficacia del contratto. Ciò tuttavia non vanifica la possibilità per il fallimento di chiedere in giudizio la condanna del convenuto in revocatoria al pagamento dell’equivalente monetario, corrispondente all’eventuale minor valore del bene alienato, in quanto gravato da locazione.
Fallimento del conduttore.
Dispone al riguardo il secondo comma dell’art.80 della legge 267/1942, secondo cui “in caso di fallimento del conduttore, il curatore può in qualunque tempo recedere dal contratto, corrispondendo al locatore un equo indennizzo per l’anticipato recesso, che nel dissenso fra le parti, è determinato dal giudice delegato, sentiti gli interessati. Il credito per l’indennizzo è regolato dall’articolo 111, primo comma, n. 1), e dall’articolo 2764 del codice civile“.
Secondo la Cassazione, il fallimento del conduttore comporta per il curatore l’obbligo di corrispondere i canoni maturati dalla data del fallimento stesso al momento del rilascio, cui si aggiunge l’obbligo di pagare un “equo compenso” per il recesso dal contratto, operato dal curatore prima della sua naturale scadenza.
Così Cassazione, 26 gennaio 1999, n.694:
“il locatore, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 80 della legge fallimentare; degli artt.1571, 1587 e 1591 c.c.; dell’art. 27 della legge 27 luglio 1978 n. 392, lamenta che il Tribunale abbia confuso ed identificato il “giusto compenso” di cui all’art. 80 della legge fallimentare con il corrispettivo della locazione previsto dall’art. 1587 c.c., n. 2 e dall’art. 1591 c.c., avendo il primo carattere sostanzialmente indennitario per il venir meno del rapporto prima del termine previsto e costituendo il secondo il canone cui è tenuto il curatore, subentrato al fallito, fino a quando non vengano rilasciati i locali a seguito dell’esercizio del diritto di recesso. Sostiene quindi che erroneamente il Tribunale non ha riconosciuto il giusto compenso derivante dall’avvenuto recesso e da determinarsi in un importo pari a sei mensilità di canone ai sensi dell’art. 27, ultimo comma,. della legge n. 392/78.
La censura è fondata.
L’art. 80, comma 2, della legge fallimentare, nel prevedere per il curatore, in caso di fallimento del conduttore, la facoltà di recedere dal contratto di locazione, riconosce al locatore un giusto compenso che, nel dissenso fra le parti, è determinato dal giudice.
In applicazione di tale previsione l’impugnato decreto ha ritenuto di determinarlo equitativamente nell’ammontare dei canoni maturati dalla dichiarazione di fallimento al rilascio dell’immobile ed ha rigettato quindi il reclamo, considerando che detti canoni erano stati già corrisposti.
Ma in tal modo il Tribunale ha identificato il compenso volto ad indennizzare il locatore per l’anticipata risoluzione del contratto di locazione con i canoni dovuti in ogni caso per l’uso dell’immobile e cioè per un titolo diverso, finendo così sostanzialmente per negare in radice il diritto rivendicato.
La discrezionalità, richiamata nella motivazione del provvedimento e di cui il giudice delegato può certamente avvalersi, non può infatti prescindere da tale netta distinzione di titoli, traducendosi altrimenti in una vera e propria violazione di legge che detto compenso prevede, indipendentemente dal dovuto versamento dei canoni”.
Le somme dovute a titolo del suddetto “equo indennizzo” rappresentano un debito della procedura, da pagare in prededuzione, visto il richiamo espressamente fatto dalla norma in commento all’art.111, primo comma, n.1, della stessa legge fallimentare. Inoltre, il credito per dette somme gode altresì dei privilegi di cui all’art.2764 c.c.
Più in generale, i giudici di legittimità avevano già in precedenza puntualizzato che è anche debito della procedura stessa quello per i canoni che maturano in epoca successiva alla data di fallimento del conduttore. Pertanto, il curatore deve parimenti soddisfarlo con prededuzione ed in misura integrale, ovviamente se sussistono i fondi. Inoltre, se il curatore non adempie, il locatore può procedere in giudizio contro il fallimento, per ottenere la risoluzione del contratto ed il rilascio dei locali.
Al riguardo, Cassazione, 28 ottobre 1998, n.10750:
“La prosecuzione del rapporto locativo dopo il fallimento del locatario, ai sensi dell’art. 80 secondo comma del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), comporta subingresso del curatore nei diritti ed obblighi contrattuali, e, quindi, il suo dovere di pagare i canoni che vengano a scadere posteriormente all’apertura del fallimento medesimo, nonché di conservare il bene, esponendolo, in caso d’inosservanza, ai comuni effetti dell’inadempimento.
I relativi debiti, qualificabili come obbligazioni della massa nei confronti del locatore ed eventualmente da soddisfarsi con la prededuzione contemplata dall’art. 111 primo comma n. 1 della citata legge fallimentare (v. Cass., n. 11397 del 27 novembre 1990), non si sottraggono alla disciplina concorsuale dell’art. 93 e segg. della legge medesima, perché implicano prelievi sull’attivo; i corrispondenti crediti, quindi, possono essere fatti valere esclusivamente nella sede della formazione del passivo, con istanza al giudice delegato, e poi, in presenza di contestazioni, nel giudizio dinanzi al tribunale fallimentare, previsto dall’art. 98 per ogni controversia inerente sia all’an che al quantum (v. Cass., n. 3699 del 20 dicembre 1971).
Ne discende che il locatore, a fronte dell’inadempimento del curatore, può promuovere in sede ordinaria azione di risoluzione del contratto e di rilascio dell’immobile, dato che la relativa domanda non trova causa o titolo nella dichiarazione di fallimento (la quale rileva soltanto ai fini della successione nelle posizioni del locatario del curatore stesso che non si avvalga della facoltà di recesso), e, quindi, non è soggetta alla vis atractiva del foro fallimentare di cui all’art. 24 del R.D. n. 267 del 1942; non può invece introdurre in quella sede ordinaria anche le pretese creditorie collegate all’inadempimento, dovendo avvalersi della specifica procedura prevista per le istanze che si indirizzino, pure per il tramite di un prioritario accertamento circoscritto all’an debeatur, ad un prelevamento sull’attivo fallimentare (v. Cass., n. 2144 del 27 febbraio 1987)”.
Quanto al pagamento dei canoni di locazione dovuti dal conduttore poi fallito, di recente la Suprema Corte ha ribadito il proprio orientamento prevalente, secondo cui si tratta di operazioni che sfuggono comunque all’azione revocatoria fallimentare.
Così infatti la Suprema Corte nella sentenza 27 febbraio 2004, n.3983:
“Il terzo motivo di ricorso è infondato.
Esso si fonda su due censure. La prima consiste nel contestare in via di principio l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui non sono revocabili i pagamenti dei canoni di locazione di un immobile necessario alle esigenze dell’impresa prima dell’inizio della procedura concorsuale quando il curatore sia subentrato nel rapporto. La seconda consiste nel negare quanto accertato dalla Corte d’appello e, cioè, che il curatore era nel caso di specie subentrato nel rapporto.
Quanto alla prima censura, la sentenza impugnata si è attenuta all’orientamento prevalente di questa Corte, cui il collegio aderisce, secondo cui sono inassoggettabili alla regola della concorsualità quelle passività che siano necessarie al fallimento per acquisire un bene o la prestazione del contraente in bonis costituente l’oggetto di un contratto di durata che continui nel corso della procedura fallimentare (Cass. 6237/91). Tale principio si desume da diverse norme contenute nella legge fallimentare come, ad esempio, quelle di cui all’art. 42 comma R.D. n. 267 del 1942 (L.f.), per cui il fallimento nell’acquisire beni che pervengono al fallito durante la procedura deve dedurre le passività incontrate per l’acquisto o la conservazione dei beni.
Tali norme si rinvengono, in particolare, in riferimento agli effetti del fallimento per i contratti in corso. In tal senso l’art. 72 comma 2° R.D. n. 267 del 1942 espressamente prevede che il curatore, che subentra nel contratto di vendita non ancora eseguito, si assume tutti gli obblighi relativi e, quindi, anche gli adempimenti non effettuati in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento. Parimenti deve dirsi per quanto concerne l’articolo 74 R.D. n. 267 del 1942 il cui secondo comma stabilisce, facendo riferimento alle disposizioni di cui all’art. 72 R.D. n. 267 del 1942, che il curatore che subentra nel contratto deve pagare integralmente il prezzo delle consegne già avvenute. Analogamente l’articolo 82 R.D. n. 267 del 1942 sancisce che il curatore che subentra nel contratto di assicurazione deve pagare all’assicuratore il premi non pagati dal fallito. Tali disposizioni, ed in particolare quella di cui all’art. 72 R.D. n. 267 del 1942 – L.f. (costituendo la disciplina in materia di compravendita la normativa di riferimento in tema di effetti del fallimento in relazione ai rapporti giuridici preesistenti applicabile anche alle ipotesi non espressamente disciplinate dalla legge fallimentare) determinano il principio generale dianzi esposto che trova la sua particolare applicazione proprio per i contratti di durata, come quello di specie, che continuano anche dopo l’inizio della procedura.
Tale principio naturalmente è valido non solo in riferimento ai pagamenti ed agli adempimenti che fanno carico al fallimento ma necessariamente trova la sua applicazione anche con riguardo alla improponibilità della azione revocatoria ed alla ammissibilità dei crediti in prededuzione al passivo del fallimento (v. per tale ultima ipotesi Cass. 8076/97).
Tale disciplina trova la sua giustificazione in esigenze di equità e di parità di trattamento. In caso contrario infatti, si avrebbe una disciplina difforme tra prestazioni aventi la stessa natura e funzionali al medesimo risultato di acquisizione di beni o prestazioni durante il fallimento causata dal fatto che la controprestazione del contraente “in bonis” nell’ambito di un rapporto unitario avrebbero un diverso trattamento a seconda se effettuate prima o dopo la dichiarazione di fallimento in aperto contrasto con il principio che prestazioni effettuate in un unico contesto sinallagmatico abbiano il medesimo trattamento.(Cass. 6237/91).
Con particolare riferimento all’ipotesi in esame di canoni di un contratto di locazione scaduti prima dell’inizio della procedura concorsuali, questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che “il pagamento dei canoni, anche se avvenuto in ritardo rispetto alle scadenze contrattuali, non si presta ad essere avulso dalla situazione unitaria del rapporto e ad essere assoggettato trattamento di revocabilità proprio dei pagamenti di debiti liquidi ed esigibili di cui all’art. 67 comma 2° R.D. n. 267 del 1942: norma, questa, che evoca una vicenda conclusa con la definitiva acquisizione di una utilità al patrimonio del fallito che, sopravvenuta l’insolvenza, il legislatore vuole cristallizzare presumendo in frode della “par condicio” ogni atto, come il pagamento che venga ad alterarla”. (Cass. 6237/91).
Ciò porta di conseguenza ad escludere che i pagamenti di canoni scaduti prima della dichiarazione di fallimento in relazione al contratto cui il curatore è subentrato, possano essere revocati ai sensi dell’art. 67 comma 2° R.D. n. 267 del 1942 (L.f.) “tanto, non solo perché la continuazione del rapporto dimostra che la continuazione della locazione è vantaggiosa per la massa ed esclude ontologicamente la sussistenza dell”eventus damni’; ma perché, per le ragioni esposte, il subentro del curatore in un contratto da valutarsi – nella funzionalità delle reciproche obbligazioni delle parti – col criterio unitario di cui si è detto, e la continuazione del rapporto durante la procedura importano l’esclusione di ogni presunzione di frode e di danno alla massa di tutte le prestazioni sinallagmatiche al godimento dell’immobile”.(Cass. 6237/91).
Per ciò che concerne la seconda censura contenuta nel terzo motivo di ricorso, con la quale si contesta l’affermazione contenuta nella sentenza che il curatore era subentrato nel contratto di affitto, la stessa è inammissibile sia perché è priva di specificità e sia perché costituisce doglianza attinente ad una valutazione di merito in ordine alla quale la Corte territoriale ha adeguatamente motivato.
A tal proposito vale osservare che la censura fa continuo riferimento ad altra sent. n. 787/99 emanata tra le parti dalla stessa Corte d’appello (di cui non si deduce neppure il passaggio in giudicato) che secondo il ricorrente conterrebbe accertamenti e valutazioni contrastanti con quelli della sentenza oggetto del presente ricorso. Mette appena conto di dire che l’unico tipo di contraddittorietà di motivazione rilevabile in sede di legittimità e quello interno alla sentenza impugnata e non già quello esterno nei confronti di altra sentenza che se anche fosse allegata agli atti del giudizio, non potrebbe essere esaminata da questa Corte di legittimità, cui è inibito l’accesso agli atti di causa”.
Giova forse enfatizzare come tali principi possano forse anche applicarsi in via analogica ad altra situazione, e cioè il pagamento della spese condominiali relative ad una unità immobiliare appartenente ad un proprietario poi fallito. Al contrario, nell’odierna prassi, il credito del Condominio per le spese in questione subisce spesso un trattamento differenziato, venendo qualificato come: chirografario (e dunque – in buona sostanza – va perduto), per quelle antecedenti la data di fallimento del proprietario dell’unità immobiliare; debito della procedura, per quelle successive detto momento (e, quindi, pagato in prededuzione).
Nonostante il suo fallimento, il conduttore rimane legittimato ad agire e resistere nelle controversie concernenti la validità del contratto di locazione avente ad oggetto un immobile destinato esclusivamente ad abitazione per sé e per la propria famiglia. Per la Suprema Corte (sentenza 30 maggio 2000, n.7142), in tali circostanze la locazione non integra un diritto patrimoniale compreso nel fallimento del conduttore (secondo la previsione dell’art. 43 della legge 267/1942), bensì un rapporto di natura strettamente personale (ai sensi del successivo suo art. 46), in quanto trattasi di un rapporto rivolto al soddisfacimento di un’esigenza primaria di vita. In quanto tale, siffatto rapporto locativo risulta inidoneo ad incidere sugli interessi della massa e, perciò, rimane indifferente per il curatore.
Alla luce di quanto sopra, è dunque nulla la clausola che prevede la risoluzione del contratto in caso di fallimento del conduttore, giacché contraria al disposto dell’art.80, comma 2, della legge 267/1942.
In conclusione:
Il fallimento del locatore non interrompe il rapporto di locazione, che prosegue tra il curatore ed il conduttore. Tuttavia, se ne sussistono i limitati presupposti, il curatore può promuovere l’azione revocatoria fallimentare per ottenere che il contratto sia giudicato privo di effetti verso la massa dei creditori, nel qual caso il conduttore deve rilasciare l’immobile. Al fallimento del conduttore consegue parimenti il subingresso del curatore nel contratto, ma quest’ultimo può tuttavia recedere, previa la corresponsione di un “equo indennizzo”, che si cumula ai canoni maturati dal momento del fallimento a quello del rilascio, rappresentanti un debito da pagarsi in prededuzione.
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