Bed_and_breakfast e regolamento condominiale

Le clausole di un regolamento condominiale contrattuale capaci di vietare l’apertura di un bed_and_breakfast (bed_and_breakfast e regolamento condominiale).


 

Nei regolamenti condominiali vengono tradizionalmente inserite alcune clausole tralatizie, magari senza domandarsi se esse rispondono effettivamente ad un’esigenza reale dello stabile a cui sono imposte. Quando ciò avviene mediante un regolamento di natura contrattuale, capace cioè di porre vincoli anche all’uso delle unità immobiliare in proprietà esclusiva che si trovano all’interno del condominio, iniziano i guai per chi le subisce, sopratutto quando non vi sia un reale motivo a giustificare le restrizioni.

Un classico esempio è quello della clausola – dal sapore antico – avente il seguente contenuto: «E’ vietato di destinare gli appartamenti ad uso di qualsivoglia industria o di pubblici uffici, ambulante, sanatori, gabinetti per la cura di malattie infettive o contagiose, agende di pegni, case di alloggio, come pure di concedere in affitto camere vuote od ammobiliate o di farne, comunque un uso contrario al decoro, alla tranquillità, alla decenza ovvero al buon nome del fabbricato».

E’ il caso esaminato dalla Seconda Sezione della Cassazione nella sentenza del 7 gennaio 2016, n.109.

I giudici hanno ritenuto che detta clausola abbia il potere di vietare oggi l’esercizio dell’attività di Bed&Breakfast (B&B) all’interno delle unità immobiliari in proprietà esclusiva ai singoli condomini.

Sebbene i tempi siano cambiati dal momento in cui venne redatto il regolamento portante siffatta clausola, i giudici hanno tout court equiparato l’attività di B&B a quella di affittacamere: «ontologicamente l’attività di affittacamere è del tutto sovrapponibile – in contrapposto all’uso abitativo – a quella alberghiera e, pure, a quella di bed and breakfast (vedi sui due punti: Cass. Sez. 6 – 2, ordinanze 704/2015 e 26087/2010)

Parimenti, la Suprema Corte ha escluso la possibilità di interpretare in chiave temporale la previsione regolamentare in questione, ritenendo «del tutto infondato … il richiamo “storicizzante” del regolamento che vorrebbe ricondurre il divieto contenuto del testo negoziale contrattuale a quelle attività che inciderebbero solo sul decoro, sulla tranquillità e sul buon nome del fabbricato, basato sull’osservazione che le rigide prescrizioni stilate del 1920 non potrebbero valere nell’epoca attuale, stante anche l’espressa previsione normativa – all’epoca: Legge Regionale Lazio n. 18 del 1997 (poi abrogata con regolamento regionale n. 16/2008) – tesa a garantire e favorire una ripresa dell’attività alberghiera e recettizia (in occasione del Giubileo speciale del 2000)».

Insomma, agli occhi della Cassazione appare in sostanza irrilevante la circostanza che l’attività di affittacamere (come intesa negli anni ’20 del secolo scorso, quando il turismo era un fenomeno di elite, che si concentrava nei grand hotels, e le camere in affitto servivano piuttosto a soddisfare esigenze residenziali di chi dotato di poco reddito) sia in qualche modo diversa da quella odierna di B&B (perlomeno quando quest’ultima è esercitata in modo coerente alla sua filosofia turistica di fondo, caratterizzata dalla «perdurante coabitazione dei proprietari con gli ospiti», e non nasconda invece l’esercizio vero e proprio di un’attività alberghiera, come talora accade a Roma).

Altresì significativo è il fatto che la Cassazione abbia deciso sulla base delle precedenti argomentazioni, senza nemmeno rispondere sui motivi di ricorso fondati sull’argomento che «altri inquilini dello stesso stabile avevano intrapreso attività commerciali, imprenditoriali e professionali che, a norma del regolamento, sarebbero state loro precluse; la omessa considerazione di tale situazione di fatto avrebbe costituito deroga al principio, disciplinato dall’articolo 1362 c.c., secondo il quale nella interpretazione del contenuto del contratto deve farsi luogo alla comune volontà delle parti anche valutando la condotta delle medesime, successiva alla conclusione del negozio».

In effetti, la clausola controversa del regolamento condominiale vietava «di destinare gli appartamenti ad uso di qualsivoglia industria o di pubblici uffici», il che potrebbe significare che l’intero stabile deve essere unicamente adibito all’uso residenziale, escludendo pure la presenza di studi professionali (se si vuole salvaguardare la tranquillità di una casa, quale differenza sostanziale presentano questi ultimi rispetto ai «pubblici uffici»?) .

Di conseguenza, ci si domanda allora se – magari per reazione ovvero per acquisire potere negoziale in una futura trattativa – chi si è visto vietare l’esercizio dell’attività di B&B possa adesso agire nei confronti degli altri condòmini, che verosimilmente stanno utilizzando i loro alloggi per uso diverso da abitazione, al fine di ottenere che anch’essi rispettino il controverso regolamento condominiale.

In realtà, ci si avventa su un terreno insidioso per tutti, come mostra una precedente decisione della Cassazione (sentenza n.16832, resa il 20 luglio 2009), resa su un caso per molti aspetti analogo a quello appena esaminato.

Al riguardo, la Cassazione aveva testualmente ribadito: «le restrizioni alle facoltà inerenti alla proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio di natura contrattuale, devono essere formulate in modo espresso o comunque non equivoco in modo da non lasciare alcun margine d’incertezza sul contenuto e la portata delle relative disposizioni (Cass. n.23 del 07/01/2004). Trattandosi di materia che attiene alla compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze e non possono quindi dar luogo ad un’interpretazione estensiva delle relative norme (Cass., sez. 2, n.9564 del 01/10/1997)».

Ciò appare ineccepibile, in via di principio.

Vediamo però in concreto come tale enunciato venne applicato.

Nella fattispecie, il Tribunale di Roma aveva rigettato la domanda giudiziale, con cui un condominio intendeva inibire al proprietario di un negozio, sito nel medesimo fabbricato, di esercitare in tale locale l’attività di ristorazione con una trattoria, adducendo che ciò avrebbe rappresentato una violazione del regolamento condominiale di natura “contrattuale”.

Tale decisione era stata poi riformata dalla Corte d’Appello di Roma, la quale aveva diversamente interpretato l’invocata norma del regolamento condominiale. Per i giudici di secondo grado, l’inibitoria andava invece pronunciata, siccome il regolamento dello stabile poneva limiti all’uso ed al godimento sia dei beni comuni che delle proprietà esclusive, allo scopo di garantire le condizioni di tranquillità di tutti i partecipanti al condominio. Non solo. Il regolamento in questione indicava («in via ovviamente esemplificativa», a dire della Corte d’Appello) una serie di attività vietate e tra esse le destinazioni dei singoli beni ad uso diverso dell’abitazione e dell’ufficio professionale privato, se non debitamente consentito dall’assemblea. Inoltre, il regolamento medesimo proibiva espressamente di destinare i locati «… ad uso ufficio pubblico, sanatorio, gabinetto di cura.., pensione, locanda, albergo o in genere a qualsiasi altro uso che possa turbare la tranquillità dei condomini o sia contrario all’igiene o al decoro dell’edificio….».

Ciò nonostante, la Suprema Corte aveva censurato quanto deciso dalla Corte d’Appello di Roma, ritenendo che quest’ultima avesse errato nell’esegesi del regolamento condominiale sottoposto al suo giudizio.

Nonostante l’apparente rigore del regolamento stesso, la Cassazione aveva invece  ritenuto che l’attività di mera ristorazione non fosse comunque inibita, siccome l’esercizio di una trattoria non era espressamente vietato: in effetti, il regolamento condominiale si limitava a proibire di destinare i locali a pensione, locanda o albergo, e cioè ad attività che contemplavano non la sola somministrazione di cibo agli avventori, ma anche quella di alloggio.

Né la Cassazione – e ciò pare alquanto rilevante – aveva acconsentito di far discendere il divieto in questione da elementi meramente presuntivi: l’utilizzazione del locale a ristorante (nella fattispecie, si trattava di un locale con pochi posti a sedere) non era stata ritenuta un uso di per sé potenzialmente lesivo della tranquillità dei condomini ovvero contrario all’igiene o al decoro dell’edificio. Né agli atti esistevano prove specifiche al riguardo. Ciò aveva dunque impedito di utilizzare le norme regolamentari, poste a tutela di tali interessi, per giustificare l’inibitoria chiesta dal condominio.

Nell’uomo comune resta un dubbio di fondo: una trattoria (che prima o poi verrà anche frequentata anche da allegri e chiassosi avventori) non è forse di per sé più rumorosa di un postribolo (leggasi: locanda ad ore)?

Le due decisioni esaminate rappresentano allora un altro esempio di coerenza e certezza del diritto?




Cosa diversa dal capire la portata dell’eventuale divieto all’attività di bed_and_breakfest contenuto in una clausola di un regolamento condominiale, è stabilire se il divieto sia applicabile nei confronti di chi acquista un appartamento nel condominio dove vige un simile regolamento.

In materia si è recentemente pronunciata la Cassazione, Sezione 1^, nella sentenza del 18 ottobre 2016, n. 21024.

La Suprema Corte pare accogliere un orientamento che limita fortemente i casi in cui il divieto opera nei confronti del nuovo acquirente.

Considerando infatti la clausola in questione come una servità atipica (anziché come una obbligazione “propter rem”, come è avvenuto in altre sentenza rese dalal Corte stessa), la Cassazione richiede che il vincolo venga chiaramente e specificamente trascritto in conservatoria, non essendo sufficiente la mera trascrizione del regolamento condominiale che non faccia specifica menzione della servitù in questione.

Cosa diversa invece se la servitù viene espressamente menzionata nel contratto di acquisto: in tale ipotesi, essa sussiste, a prescindere dalla corretta trascrizione del regolamento condominiale.


Cassazione, sentenza 18 ottobre 2016, n.21024.


 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente – Dott. MATERA Lina – Consigliere –
Dott. MANNA Felice – rel. Consigliere – Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere – Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere – ha pronunciato la seguente:
SENTENZA

sul ricorso 3111/2012 proposto da:

I.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 106, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO FALVO D’URSO, rappresentato e difeso dall’avvocato LIBORIO GAMBINO;

– ricorrente –

contro

CONDOMINIO (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PAOLO EMILIO 34, presso lo studio dell’avvocato BIANCA MARIA CASTOLDI, rappresentato e difeso dall’avvocato GIANDOLFO REDINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 54/2011 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 19/01/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/07/2016 dal Consigliere Dott. FELICE MANNA;

udito l’Avvocato CAMBINO Pietro, con delega depositata in udienza dell’Avvocato Liborio GAMBINO, difensore del ricorrente che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

I.M. e Rosario Costa, partecipanti al condominio di (OMISSIS), Palermo, impugnavano la delibera 12.2.2006 dell’assemblea condominiale, nella parte in cui questa aveva integrato il regolamento condominiale inserendovi un articolo che vietava ai condomini di destinare le unità singole a case-famiglia, bed and breakfast, pensioni, alberghi o affittacamere. A sostegno della domanda deducevano che la deliberazione era stata adottata con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c. e non all’unanimità.

Nel resistere in giudizio il condominio, oltre a contestare la legittimazione attiva di Rosario Costa, non più condomino già al momento di propone la domanda, deduceva che la delibera aveva integrato il regolamento, adottato il 15.11.1991 in riproduzione di quello originario del 1957 (andato perduto) ma senza la clausola, analoga a quella in questione, ivi contenuta. Pertanto, la delibera impugnata non aveva fatto altro che ripristinare il precedente divieto.

L’adito Tribunale di Palermo accoglieva la domanda e dichiarava la nullità della delibera impugnata.

Tale sentenza era riformata dalla Corte d’appello di Palermo, che sull’impugnazione del condominio dichiarata la carenza di legittimazione attiva di Rosario Costa, rigettava la domanda e compensava le spese. Riteneva la Corte territoriale che le limitazioni all’utilizzo delle unità immobiliari derivavano da un regolamento condominiale di origine contrattuale, in quanto richiamato negli originari atti d’acquisto delle singole proprietà esclusive. Nè aveva rilievo la circostanza che tali limitazioni non fossero state inserite nelle note di trascrizione, la cui funzione di strumento per dirimere un conflitto tra situazioni inconciliabili tra loro era da escludere.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre I.M., sulla base di due motivi.

Resiste con controricorso il condominio, che nell’imminenza dell’udienza di discussione ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. – Il primo motivo denuncia la violazione dell’art. 1138 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 (rectius, n. 3). Sostiene parte ricorrente che la validità della delibera impugnata avrebbe dovuto essere apprezzata con riferimento al regolamento condominiale vigente all’epoca, ossia quello approvato il 15.11.1991, non già avendo riguardo a quello originario, ormai caducato e sostituito da quest’ultimo.

1.1. – Il motivo è inammissibile, sia perchè nella sua genericità non spiega la ragione per cui l’originario regolamento sarebbe stato caducato e sostituito, sia in quanto propone un dato di fatto che questa Corte non può accertare. accedendo ad una ricostruzione fattuale diversa da quella operata nella sentenza impugnata.

2. – Il secondo motivo allega, ancora, la violazione dell’art. 1138 c.c., in relazione all’art. 360 c.c., n. 3, perchè, sostiene parte ricorrente, l’omessa trascrizione del regolamento originano, sebbene non ne avesse prodotto l’invalidità o l’inefficacia, aveva determinato tuttavia l’inopponibilità delle clausole limitative ai successivi acquirenti, nei cui atti d’acquisto non era stato ripetuto analogo richiamo al regolamento.

2.1. – Il motivo è fondato.

Secondo alcune sentenze di questa Corte, le clausole del regolamento condominiale di natura contrattuale, che può impone limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà purchè siano enunciate in modo chiaro ed esplicito, sono vincolanti per gli acquirenti dei singoli appartamenti qualora, indipendentemente dalla trascrizione, nell’atto di acquisto si sia fatto riferimento al regolamento di condominio, che – seppure non inserito materialmente – deve ritenersi conosciuto o accettato in base al richiamo o alla menzione di esso nel contratto (Cass. n. 17886/09. che nello specifico, in cui una società aveva acquistato tutte le unità immobiliari di un edificio, tranne una, ha ritenuto che poichè all’atto dell’acquisto essa società aveva dichiarato di “ben conoscere ed accettare” le pattuizioni condominiali, una delle quali recava il divieto di uso alberghiero, legittimamente i proprietari della suddetta unità abitativa si fossero opposti a che la società adibisse l’immobile acquistato ad albergo; conforme, Cass. n. 10523/03).

Altra giurisprudenza precisa anche che la clausola del regolamento di condominio di un edificio che impone il divieto di destinare i locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini a determinate attività, ritenute incompatibili con l’interesse comune, traducendosi in una limitazione delle facoltà inerenti al diritto di proprietà dei singoli condomini, deve essere approvata all’unanimità e per avere efficacia nei confronti degli aventi causa a titolo particolare dei condomini deve essere trascritta nei registri immobiliari oppure essere menzionata ed accettata espressamente nei singoli atti d’acquisto (Cass. n. 6100/93, in fattispecie di divieto di destinare gli appartamenti a gabinetto odontotecnico).

Altra, ancora, afferma che con il regolamento condominiale possono esser costituiti pesi a carico di unità immobiliari di proprietà esclusiva e a vantaggio di altre unità abitative, cui corrisponde il restringimento e l’ampliamento dei poteri dei rispettivi proprietari, o possono imporsi prestazioni positive a carico dei medesimi e a favore di altri condomini o di soggetti diversi, ovvero possono limitarsi il godimento o l’esercizio dei diritti del proprietario dell’unità immobiliare. Nel primo caso è configurabile un diritto di servitù, trascrivibile nei registri immobiliari; nel secondo un onere reale e nel terzo un’obbligazione propter rem, non trascrivibile. Il divieto di adibire l’immobile ad una determinata destinazione, ovvero di esercitarvi determinate attività è inquadrabile in quest’ultimo istituto, e il corrispondente diritto è prescrittibile se il creditore non lo esercita per il periodo predeterminato dalla legge (Cass. n. 11684/02).

Infine, si afferma pure nella giurisprudenza di questa Corte che il regolamento di condominio predisposto dall’originario unico proprietario dell’intero edificio, ove accettato dagli iniziali acquirenti dei singoli piani e regolarmente trascritto nei registri immobiliari, assume carattere convenzionale e vincola tutti i successivi acquirenti non solo con riferimento alle clausole che disciplinano l’uso o il godimento dei servizi o delle parti comuni, ma anche a quelle che restringono i poteri e le facoltà dei singoli condomini sulle loro proprietà esclusive, venendo a costituire su queste ultime una servitù reciproca (Cass. n. 3749/99; conforme, con riguardo ad un’ipotesi di supercondominio, Cass. n. 14898/13).

2.2. – Ritiene il Collegio, aderendo a quest’ultima impostazione, che in materia di regolamento condominiale convenzionale, la previsione ivi contenuta di limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, incidendo non sull’estensione ma sull’esercizio del diritto di ciascun condomino, debba essere ricondotta alla categoria delle servitù atipiche, e non delle obligationes propter rem.

Vi solidarizza l’enfasi, propria del concetto di limite, posta sulla menomazione della possibilità di godimento, mentre risulta assente il presupposto dell’agere necesse nel soddisfacimento d’un corrispondente interesse creditorio, che connota invece l’obbligazione anche se avente ad oggetto un non facere. Incompatibile con lo schema obbligatorio, inoltre, la reciprocità di tali limiti. Questa, infatti, ove riferita alle obbligazioni comporta che ciascun soggetto del rapporto assume ad un tempo entrambe le posizioni, debitoria e creditoria, in virtù di una causa di scambio, la quale, a sua volta, ha ad oggetto delle utilità differenti. Pertanto, non vi può essere obbligazione reciproca quando ciascuno debba all’altro un eguale speculare a quello cui questi è tenuto verso di lui.

Non vi osta, invece, il fatto che il vantaggio e lo svantaggio che ne derivano, soddisfacendo per lo più un interesse inerente alla sfera personale, riguardino più che i fondi coloro che a qualunque titolo ne godano. Una tale conseguenza non è estranea alle servitù, soprattutto a quelle negative, in cui l’interferenza d’interessi personali (si pensi alla servitù inaedificandi o altius non tollendi) non fa venir meno la sequela e, dunque, la realità del peso.

Ricondotta alla servitù, l’opponibilità ai terzi acquirenti dei limiti alla destinazione delle proprietà esclusive in ambito condominiale va regolata secondo le norme proprie di questa, e dunque avendo riguardo alla trascrizione del relativo peso. A tal fine non è sufficiente indicare nella nota di trascrizione il regolamento medesimo, ma, ai sensi dell’art. 2659 c.c., comma 1, n. 2, e art. 2665 c.c., occorre indicarne le specifiche clausole limitative (Cass. nn. 17493/14 e 7515/86).

Fermo restando – è chiaro – che anche in assenza di trascrizione quest’ultimo può valere nei confronti del terzo acquirente, il quale ne prenda atto in maniera specifica nel medesimo contratto d’acquisto. E salvo precisare che, in tal caso, tecnicamente neppure si pone una questione di opponibilità.

2.3. – Pertanto, erroneamente la Corte territoriale non ha dato rilievo alla trascrizione sul non dirimente presupposto della natura contrattuale del regolamento, evidentemente confidando nella natura obbligatoria ob rem dei limiti di destinazione da esso imposti alle proprietà esclusive dei condomini.

3. – La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio, anche per le spese di cassazione, ad altra sezione della Corte d’appello di Palermo, che nel decidere il merito si atterrà al seguente principio di diritto: “la previsione contenuta in un regolamento condominiale convenzionale di limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, incidendo non sull’estensione ma sull’esercizio del diritto di ciascun condomino, deve essere ricondotta alla categoria delle servitù atipiche, e non delle obligationes propter rem, non configurandosi in tal caso il presupposto dell’agere necesse nel soddisfacimento d’un corrispondente interesse creditorio. Pertanto, l’opponibilità ai terzi acquirenti di tali limiti va regolata secondo le norme proprie della servitù, e dunque avendo riguardo alla trascrizione del relativo peso, indicando nella nota di trascrizione, ai sensi dell’art. 2659 c.c., comma 1, n. 2, e art. 2665 c.c., le specifiche clausole limitative, non essendo invece sufficiente il generico rinvio al regolamento condominiale”.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, respinto il primo, cassa la sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese di cassazione, ad altra sezione della Corte d’appello di Palermo.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2016