Aumenti del canone di locazione

Durante la pendenza del rapporto di locazione commerciale, è possibile effettuare aumenti del canone di locazione inizialmente pattuito?


 

Il caso è regolato dall’art.32 della legge 392/79 (come sostituito dall’art.1, comma 9 sexies del decreto legge 7 febbraio 1985, n.12, convertito dalla legge del 5 aprile 1985, n.118), che è di ordine pubblico.

Il contenuto di tale norma è piuttosto semplice. Essa lascia alle parti la sola libertà di convenire che, in pendenza del rapporto, il canone può essere aggiornato annualmente – su richiesta del locatore – in modo da tenere conto delle variazioni del potere di acquisto della moneta, rilevate queste ultime dall’apposito indice elaborato dall’ISTAT (e cioè quello dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati).

Preliminarmente, ci si può domandare quanto tale indice sia adeguato, ricordando le polemiche sollevate anche dalle associazioni dei consumatori circa la capacità dell’indice stesso a rilevare il costo effettivo della vita (polemiche che, al momento, hanno avuto il loro apice in occasione del passaggio dalla lira all’euro).

Nel merito, invece, va notato che l’aumento del canone nemmeno corrisponde a quello del costo della vita così accertato, siccome il primo deve limitarsi solo al 75% del secondo. In altre parole, ogni anno il canone si svaluta del 25% rispetto all’aumento del costo della vita registrato dall’ISTAT.

Posto comunque che a detto indice “ridotto” non è consentito sottrarsi (nemmeno pattuendo una somma fissa: Cassazione, 9 luglio 1992, n.8377), sul piano giuridico bisogna sottolineare che l’adeguamento del canone non discende per il solo fatto che esiste la norma in questione. Come la stessa sancisce, è indispensabile pattuirlo espressamente nel contratto (Cassazione, 5 agosto 2004, n.15034).

Una volta stabilito che l’adeguamento deve esservi, passiamo alle sue modalità applicative.

In primo luogo, emerge la necessità che l’adeguamento pattuito venga anche richiesto dal locatore. Qui la Cassazione segue un formalismo piuttosto esasperato.

E’ infatti nulla la previsione contrattuale che prevede un’unica richiesta, fatta in via preventiva, per tutti gli aumenti che si avvereranno nel corso del rapporto. Così la sentenza 7 febbraio 2005, n.2417:

 

“è contraria al disposto dell’art.32 una clausola che preveda una richiesta preventiva dell’aggiornamento con effetto attributivo di tutte le variazioni Istat che interverranno nel corso del rapporto (Cass. 15799/03) ovvero una richiesta successiva riferita ad anni diversi da quello immediatamente precedente, e ciò perché la richiesta si pone come condizione per il sorgere del relativo diritto, con la conseguenza che il locatore può pretendere il canone aggiornato solo dal momento della stessa, senza che sia configuratale un suo diritto od ottenere il pagamento degli arretrati (Cass. 14673/03)”.

 

Lo stesso dicasi per le clausole che prevedono l’aggiornamento automatico del canone. Di conseguenza, per poter ottenere l’aumento in questione, è necessario che di anno in anno il locatore inoltri specifica richiesta (sentenza 6 febbraio 1998, n.1290), anche verbale (sentenza 15 dicembre 2002, n.14655) sebbene poco consigliabile sotto il profilo delle esigenze probatorie.

Parimenti nulla la pattuizione con cui le parti si accordano nel senso dover pagare gli “arretrati” maturati negli anni antecedenti il periodo cui si riferisce la richiesta, meglio qualificabili come “variazioni pregresse”. Sul punto la sentenza 2 ottobre 2003, n.14673:

 

“Alla richiesta prevista dall’art.32 cit. non può, infatti, attribuirsi efficacia retroattiva. Questa S.C., con riferimento all’art.71, concernente l’aggiornamento nel periodo transitorio, ha statuito che la richiesta si pone come condizione per il sorgere del relativo diritto, con la conseguenza che il locatore può pretendere il canone aggiornato solo dal momento della stessa, senza che sia configurabile un suo diritto od ottenere il pagamento degli arretrati, (sentente n.325/87; n.8159/91; n.2490/92; n.8780/95). Ed il principio è valido anche nel regime ordinario, in relazione all’art.32, che richiede anch’esso la richiesta (cosi come l’art.24 per le locazioni abitative). Nel caso in esame il canone avrebbe dovuto essere aggiornato quindi con esclusivo riguardo alla variazione ISTAT verificatasi rispetto all’anno antecedente la richiesta di aggiornamento”.

 

Ciò però non incide sulla base di calcolo dell’aumento, dovendosi assumere il criterio della cosiddetta “variazione assoluta”, e cioè prendendo come base sempre il canone iniziale e tenendo conto dell’intera variazione Istat (ridotta al settantacinque per cento) verificatasi per l’intero periodo tra il momento di determinazione del canone originario ed il momento della richiesta. Ai fini di tale calcolo, resta ininfluente che per qualche annualità intermedia non sia stato richiesto in precedenza l’aggiornamento, giacché tale omissione impedisce soltanto l’accoglimento della domanda relativa alla corresponsione degli aggiornamenti pregressi (Sentenza 5 febbraio 2004, n.15034).

Ad ogni modo, nel contratto è bene individuare con precisione la decorrenza annuale nonché chiarire qual è l’indice da applicare. Il fine è essenzialmente l’evitare sterili controversie: sebbene il loro valore economico sia tutto sommato modesto, esse hanno ripetutamente coinvolto le corti, specie nel settore delle locazioni abitative quando vigeva il cosiddetto “canone equo”. In tale ottica, allora, è opportuno specificare che: la decorrenza dell’aumento coincide con la ricorrenza annuale della data di stipulazione del contratto; l’indice ISTAT applicabile corrisponde a quello rilevante la variazione del costo della vita del  mese in cui cade detta ricorrenza rispetto all’anno precedente.

L’aggiornamento del canone è anche previsto quando l’immobile è adibito a:

  • attività di natura stagionale (art.33 legge 392/78);
  • attività ricreative, assistenziali, culturali, scolastiche, sede di partiti e sindacati (art.42, comma 2, legge 392/78);
  • qualsiasi uso, se il conduttore è lo Stato o altro ente pubblico territoriale (art.42, comma 2, legge 392/78).

Nonostante la rigidità del sistema appena delineato, la Cassazione ha comunque salvaguardato un limitato spazio di libertà per le parti.

La sentenza 6 ottobre 2005, n.19475, esprime infatti un orientamento consolidato:

 

“Questo giudice di legittimità, infatti, non solo ha già indicato (Cass., n.1070/2000) che, in relazione al principio della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, la clausola convenzionale, che prevede future maggiorazioni del canone diverse dall’aggiornamento ex art.32 della legge n.392 del 1978, per essere secundum legem (art.32 e 79 della legge sull’equo canone) deve chiaramente riferirsi ad elementi predeterminati, desumibili dal contratto, ed idonei ad influire sull’equilibrio economico del rapporto, in modo autonomo dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta (mentre è contra legem e come tale radicalmente nulla per violazione della norma imperativa se costituisce un espediente diretto a neutralizzare gli effetti della svalutazione monetaria, con conseguente squilibrio del rapporto sinallagmatico e violazione dei limiti quantitativi previsti dal sistema normativo), ma ha anche precisato (Cass., n.1683/99) che deve ritenersi legittima, quale espressione di autonomia contrattuale, la clausola con la quale venga pattuito un canone locativo costituito per una parte da una somma di danaro e per l’altra dall’esborso di somme determinate per ristrutturazione e restauro dell’immobile locato”.

 

La questione si incentra soprattutto sul se sia legittimo pattuire che la determinazione del canone avvenga in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del medesimo rapporto. Tra le varie sentenze (3 agosto 1987, n.6695; 8 marzo 1993, n.2770; 22 gennaio 1994, n.9878; 24 giugno 1997, n.5632; 3 maggio 1996, n.4073; 26 febbraio 1999, n.1683; 1 febbraio 2000, n.1070), si può ricordare quella più recente del 9 marzo 2006, n.5113:

 

“sulla base della norma che consente alle parti di determinare liberamente il canone locativo per gli immobili destinati ad uso non abitativo, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel riconoscere la validità della clausola che prevede il canone in misura frazionata e crescente nell’arco del rapporto quando l’importo del canone, ancorché del tutto indipendente dalle variazioni del poter di acquisto della moneta, sia stato ancorato a predeterminati elementi incidenti sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale o sia stato legato ad una “giustificata” riduzione del canone per un limitato periodo iniziale.

E’ ben vero che il principio, secondo la costante giurisprudenza in materia di questa Corte, non può essere utilizzato per perseguire surrettiziamente lo scopo di neutralizzare gli effetti della svalutazione monetaria oltre i limiti imposti dalla legge n.392 del 1978, art.32”.

 

Cercando di “tirare le fila del discorso”, la Cassazione non sembra affatto orientata nel consentire la creazione pattizia di regimi alternativi al meccanismo fissato dall’art.32 citato (il quale viene addirittura assunto quale limite massimo alla liberta contrattuale). Piuttosto, i giudici di legittimità paiono sforzarsi di evitare che la norma in questione si trasformi in un ostacolo alla regolamentazione in via contrattuale del canone di locazione inizialmente dovuto in vista delle peculiari situazioni dell’immobile locato ovvero dei rapporti esistenti tra le parti.

Così è nel caso della “giustificata riduzione del canone per un limitato periodo iniziale” (già approfondito nel precedente caso 5.7), dove l’approccio corretto per comprendere la pattuizione è il considerare pattuito il canone iniziale per una certa misura, la quale viene ridotta nel periodo iniziale – limitato comunque nel tempo – in ragione delle controprestazioni comunque chieste al conduttore (ad esempio, l’eseguire migliorie all’immobile), le quali rappresentano una giustificazione economica dell’intera operazione. Tale spirito verrebbe invece meno, se nel caso concreto si rilevasse invece un intento elusivo dell’art.32 della legge 392/78, ravvisabile quando la mancanza di una comprensibile controprestazione del conduttore non consentisse al giudicante di ravvisare altra spiegazione, se non la volontà di dissimulare un aumento del canone, scattante nel momento in cui viene meno il periodo di “riduzione” concordata.

La stessa filosofia dovrebbe ispirare anche l’esame delle diverse situazioni ove sussiste un aumento differenziato e crescente. Ciò può essere innanzitutto speculare al caso appena illustrato, nel senso che – una volta terminati gli interventi di miglioria all’immobile posti a carico del conduttore – il canone originariamente pattuito in modo limitato subisce un aumento più considerevole. Ancora, la pattuizione in discussione potrebbe trovare una sua ragionevole spiegazione economica, qualora al momento della stipulazione del contratto l’immobile locato risulti sito all’interno di un complesso in modesto stato di conservazione, che però il locatore si propone di rinnovare mediante una incisiva ristrutturazione. Nel momento iniziale del rapporto, infatti, il valore di mercato del canone può risultare modesto, ma subire un significativo incremento nel momento in cui la ristrutturazione viene ultimata. In simili circostanze, allora, prevedere un aumento differenziato, che scatta al termine dei lavori, trova una sua spiegazione economica, ben distante dall’eludere il disposto dell’art.32 della legge 392/78. Per altro verso, infatti, l’alternativa sarebbe tra scegliere una delle seguenti opzioni. Lasciare sfitto l’immobile, il che può anche nuocere al conduttore, magari desideroso di stanziarsi da subito nel fabbricato, in previsione del futuro suo sviluppo. Porre a carico del conduttore un consistente concorso alle spese di ristrutturazione, pattuizione lecita siccome non si scontra con alcuna norma di carattere imperativo (come già accennati nel caso precedente e si approfondirà in quello n.5.12, per le locazioni ad uso diverso da abitazione l’art.23 della legge 392/78 non rappresenta una norma di ordine pubblico).

In definitiva. Sebbene sia alto il desiderio di approfittare dello spazio di libertà identificato dalla Cassazione, ciò può essere utilmente fatto solo in presenza di una situazione oggettiva, che ragionevolmente giustifica una pattuizione in senso diverso al rigido regime sancito dall’art.32 in questione. In difetto, la giurisprudenza tende a ravvisare un abuso e, conseguente, a considerare nulla la pattuizione “estrosa”, sottoponendo gli aumenti di canone al regime sancito dalla legge (Cassazione, 25 maggio 1992, n.6246; 7 settembre 1995, n.9458; 27 luglio 2001, n.10286).

Situazione completamente diversa (ma alquanto rara nella prassi!) è quella in cui –  non in sede di stipulazione del contratto di locazione, ma con accordo successivamente concluso e perfezionato in modo del tutto indipendente dalle pattuizioni originarie – le parti concordano aumenti del canone medesimo, per mantenere l’equilibrio economico tra le rispettive prestazioni. La Cassazione ne ha riconosciuto la piena legittimità, con la conseguenza che il conduttore non potrà successivamente chiedere la restituzione di quanto pagato in eccedenza per effetto dei nuovi accordi (sentenza 19 novembre 1993, n.11402):

 

“Il Tribunale ha ritenuto che detti aumenti fossero illegittimi essendo in contrasto con la disposizione dell’art. 32 della citata legge, interpretata alla stregua della sentenza n. 6896/87 di questa Corte, secondo cui in tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, la clausola contrattuale avente ad oggetto la preordinata maggiorazione annuale del canone – in misura fissa o differenziata, anno per anno, a partire dal primo dopo la stipulazione di un contratto di durata legale – deve ritenersi illegittima alla luce della disposizione di cui all’art. 32 della legge n. 392 del 1978 il quale, nel porre rigidi limiti cronologici e quantitativi alla convenzione di aggiornamento del canone per rivalutazione monetaria, tende a conservare un attenuato sistema di blocco dei canoni.

Tuttavia, nel richiamare il cennato principio, la cui assolutezza risulta peraltro temperata dalla successiva giurisprudenza (per la quale v. in vario senso sentenze nn.326/90, n.8883/91, n.6246/92, n.8377/92, n.2770/93), la decisione impugnata non ha tenuto conto della peculiarità della fattispecie sottoposta al suo esame, nella quale l’aumento dei canoni, a differenza delle fattispecie esaminate nella richiamata giurisprudenza, non era stato preordinato nel contratto, ma era stato concordato successivamente, nel corso del rapporto.

Questa circostanza era da sola sufficiente a ritenere la legittimità degli aumenti del canone, poiché l’art.79 della legge n.392 del 1978, che commina la nullità delle pattuizioni dirette ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto a quello dovuto, è diretto ad evitare una elusione di tipo preventivo dei diritti del locatario, ma non esclude la possibilità di disporne, una volta che i diritti siano sorti e quindi possano essere fatti valere (v. Cass., 8 febbraio 1990, n.872; Cass., 12 novembre 1986, n.6634).

Nella specie, il conduttore, titolare di un rapporto che gli consentiva di detenere l’immobile per la durata di sei anni, era assolutamente libero di accettare o meno la richiesta di aumento del canone avanzata dalla locatrice nel corso del rapporto medesimo, non potendo subire alcun pregiudizio dalla mancata adesione alla detta richiesta, per cui egli, avendo aderito alla stessa, ha legittimamente rinunciato al diritto già acquisito di non subire aumenti del canone diversi da quelli stabiliti nell’art.32”.

 

 

 

In conclusione:

 

 

Durante la pendenza del rapporto, il canone di locazione inizialmente pattuito può aumentare unicamente se nel contratto è stata inserita una apposita clausola, che ne prevede l’adeguamento annuo in misura pari al 75% dell’aumento del costo della vita rilevato dall’apposito indice ISTAT.  Altre soluzioni non sono consentite, a meno che siano giustificate da particolari situazioni oggettivamente dimostrabili. Cosa diversa è se, in pendenza del rapporto, le parti si accordano per un aumento del canone, senza però esservi tenute da patti assunti in occasione della stipulazione del contratto.

 

 

Clausola contrattuale:

 

“Il canone viene assoggettato, ogni anno a decorrere dalla ricorrenza annuale della data di stipulazione, ad aggiornamento nella  misura derivante dall’applicazione del coefficiente ISTAT (relativo alla variazione del costo della vita del  mese in cui cade detta ricorrenza rispetto all’anno precedente) previsto dall’art.32 della legge 392/78 come modificato dall’art.1, comma 9 sexies, della legge 118/85”.