Responsabilità penale amministratore condominiale

Per evitare la responsabilità penale amministratore condominiale, è sufficiente prevenire le situazioni di pericolo, quando egli non può eliminarne la causa.


La responsabilità penale amministratore condominiale insorge in quanto egli assume una posizione di garanzia, e cioè è tenuto a vigilare sulle cose comuni e ad effettuare i necessari lavori di rimozione del pericolo derivante da minaccia di rovina e più in generale al dovere di effettuare lavori di manutenzione straordinaria che rivestano carattere di urgenza con specifico obbligo di riferirne ai condomini nella prima assemblea ai sensi dell’art. 1135 II comma c.c.

Al fine di andare esente da responsabilità penale, è sufficiente che l’amministratore di condominio intervenga sugli effetti anzichè sulla causa della rovina: basta cioè che egli prevenga la specifica situazione di pericolo, interdicendo – ove ciò sia possibile – l’accesso o il transito nelle zone pericolanti.

 


Casssazione penale, sentenza 23 ottobre 2015, n.46385

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROMIS Vincenzo – Presidente –

Dott. BLAIOTTA Rocco Marco – Consigliere –

Dott. MENICHETTI Carla – Consigliere –

Dott. PICCIALLI Patrizia – Consigliere –

Dott. PEZZELLA Vincenzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

 

sentenza

sul ricorso proposto da:

A.L. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 25/2014 TRIBUNALE di NOLA, del 03/03/2015;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 23/10/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. VINCENZO PEZZELLA;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Alfredo Pompeo Viola, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

Udito il difensore Avv. Claudio Lanzotti, che si è riportato ai motivi del ricorso chiedendone l’accoglimento e, in subordine, ha chiesto dichiararsi estinto il reato per prescrizione.

Svolgimento del processo

 

1. Il Giudice Monocratico del Tribunale di Nola, con sentenza del 3.3.2015, confermava – con condanna alle ulteriori spese del grado e a quelle della parte civile – la sentenza resa dal Giudice di Pace di Acerra il 6.3.2014 con la quale A.L. era stato condannato alla pena di Euro 200 di multa per il reato p. e p. dagli artt. 40-590 c.p., per non aver impedito, pur avendo l’obbligo giuridico di impedire l’evento dannoso in quanto titolare di una posizione di controllo,in qualità di Amministratore del Condominio sito in (OMISSIS), per negligenza, imprudenza ed/o imperizia, in violazione di norme cautelari di condotta la cui osservanza era concretamente esigibile, non predisponendo gli ordinari lavori di manutenzione all’edificio di cui al suddetto condominio, che, cadendo parti di rivestimento della facciata dello stabile, provocassero lesioni al minore all’epoca dei fatti, S.P., giudicate guaribili, come da referto medico, n. 24435 del 02/12/2007, stilato dalla Casa di Cura “Villa dei Fiori”, in Acerra, in giorni sei. Fatto accaduto in (OMISSIS) (querela del (OMISSIS)).

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, A.L., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

a. NULLITA’ DELLA SENTENZA PER ERRONEA APPLICAZIONE DELLA LEGGE PENALE dell’art. 606 c.p.p., ex lett. b).

Ad avviso del ricorrente apparirebbe evidente che, indipendentemente dalla veridicità o meno del fatto contestato, la circostanza che l’amministratore del condominio non fosse mai stato messo a conoscenza di un concreto pericolo di crollo di alcuni calcinacci del cornicione del palazzo, nonchè che mai nessun segnale in tal senso si fosse verificato o fosse stato posto alla sua attenzione, nè, soprattutto, che nessuna richiesta di risarcimento danni fosse stata avanzata dalla presunta persona offesa, comporterebbero che nessun tipo di responsabilità penale possa addebitarsi all’odierno imputato.

Ci si duole, in altri termini, che nessun inadempimento può essere addebitato a carico dell’ A., avendo egli sempre diligentemente operato nei limiti del suo mandato. Tale tipo di questione, semmai, andava promossa quale eventuale richiesta di risarcimento in sede civile, dove poteva emergere una eventuale responsabilità del condominio stesso, senza far ricadere la pesante scure del processo e di una condanna penale nei confronti di un serio professionista.

Il ricorrente afferma che non può assolutamente condividersi l’argomentazione posta a sostegno del giudice di appello, secondo il quale, l’amministratore, nonostante le diverse convocazioni assembleari (sempre andate deserte, chiaro segno dell’assoluta indifferenza dei condomini) avrebbe dovuto intervenire di propria iniziativa, provvedendo a far eseguire le opere di manutenzione straordinaria necessarie. Ciò, ovviamente, in una situazione normale, cioè in presenza di un condominio diligente, che versi regolarmente le quote e che quindi abbia a disposizione un fondo cassa per provvedere a tali opere di manutenzione, seppur straordinarie.

Nel caso di specie, invece, l’amministratore non avrebbe in alcun modo (non avendone minimamente i fondi) potuto incaricare nessuna ditta, non avendo nemmeno la possibilità di consegnare una somma quale anticipo sul costo totale, costo tra l’altro non certo contenuto, se solo si considera quello necessario per l’apposizione dei relativi ponteggi. Ci si chiede in ricorso in che modo pertanto l’amministratore avrebbe potuto provvedere di propria iniziativa.

Ciò in quanto “di propria iniziativa”, come ribadito dal giudice di appello, non può certo significare a proprie spese, facendo ricadere sull’amministratore addirittura la morosità dei condomini.

Si sostiene che anche qualora l’odierno imputato avesse effettivamente incaricato una ditta per l’esecuzione dei lavori, ritenendo gli stessi assolutamente urgenti, per poi informarne l’assemblea, nessuna ditta li avrebbe eseguiti in mancanza totale di fondi.

Si ribadisce pertanto che erroneamente i giudici di merito ritenevano applicabile al caso di specie l’obbligo di agire ex art. 40 c.p., comma 2.

b. NULLITA’ DELLA SENTENZA ex art. 606 c.p.p., lett. e, PER MOTIVAZIONE INSUFFICIENTE. Il ricorrente evidenzia che già in sede di appello aveva rilevato come l’istruttoria dibattimentale di primo grado innanzi al giudice di pace avesse chiarito in maniera indiscutibile che le lesioni riportate dalla p.o. non potevano essere ricon-ducibili alla caduta dei calcinacci dalla facciata del palazzo, episodio la cui stranezza si completerebbe con l’anomala circostanza che, a fronte della pericolosissima caduta di calcinacci provenienti dalla facciata del palazzo e di un presunto ferito, non si avvertì il bisogno di allertare nè il servizio di soccorso ospedaliero, nè il corpo dei Vigili del Fuoco.

Tuttavia, il giudice monocratico in sede di appello, nulla motivava in ordine alla dinamica dell’evento ed alla riconducibilità della lesione riportata dalla p.o. alla presunta caduta di calcinacci dalla facciata del fabbricato allora amministrato dall’odierno imputato, riportandosi unicamente alle dichiarazioni della p.o. (costituita parte civile) ed alla (per nulla confermativa) escussione dei testi del P.M..

c. NULLITA’ DELLA SENTENZA PER OMESSA MOTIVAZIONE ex art. 606 c.p.p., lett. E. Si lamenta che il giudice di appello, sulla scorta delle argomentazioni difensive inerenti l’insussistenza di una responsabilità in capo all’allora amministratore, avrebbe dovuto correttamente revocare tutte le statuizioni di natura civilistica, così come specificamente richiesto nell’atto di impugnazione.

Ed invece, il giudice monocratico non solo non revocava le statuizioni civili, ma addirittura non considerava meritevole di attenzione il relativo capo di impugnazione, nulla motivando in ordine alla conferma implicita anche dello stesso.

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.

Motivi della decisione

 

1. I motivi sopra illustrati, invero alquanto generici ed aspecifici, appaiono infondati e, pertanto, il proposto ricorso va rigettato.

2. Il ricorrente deduce violazione di legge e/o vizio motivazionale, ma in realtà richiede una rivalutazione del fatto non consentita in questa sede.

Sul punto va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione, di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi questa sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009 n. 12110 e n. 23528 del 6.6.2006).

Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, rv. 214794).

Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene nè alla ricostruzione dei fatti nè all’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (sez. 2, n. 21644 del 13.2.2013, Badagliacca e altri, rv. 255542).

Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto.

Non c’è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46.

Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto, senza indicare specificamente quale sia il punto della motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto, da cosa tale illogicità vada desunta.

Com’è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte la sentenza deve essere logica “rispetto a sè stessa”, cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da “altri atti del processo”, purchè specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.

3. Se questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa Suprema Corte, le censure che il ricorrente rivolge al provvedimento impugnato si palesano manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza del Tribunale di Nola in funzione di giudice di appello alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva.

Il giudice del gravame di merito con motivazione specifica, coerente e logica ha infatti, dato conto di come la prova dei fatti a sostegno della accusa sia stata raggiunta nei confronti dell’odierno ricorrente non solo attraverso le testimonianze rese da S. G. e S.P., ma anche attraverso quelle di P. M., testimone oculare del fatto, e di D.C.C..

Correttamente il giudice di appello ha ricordato che, in conformità con la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, la deposizione della persona offesa può essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità dell’imputato, purchè sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, che richiedono la presenza di riscontri esterni;

tuttavia, qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (così la richiamata sez. 1, sent. 29372/2010).

Nel caso di specie il giudice nolano ha dato conto di tale accurato vaglio, ricordando in motivazione come le dichiarazioni rese dalla p.o. apparissero connotate da tutti i crismi della attendibilità intrinseca, in quanto rendevano una narrazione coerente e logica, ed inoltre le stesse fossero pienamente riscontate non solo dalle deposizioni degli altri testi escussi, in particolare P. M., ma trovassero anche puntuale riscontro nel referto medico in atti.

4. La pronuncia impugnata prosegue poi ritenendo di non poter mettere in discussione che l’amministratore del condominio rivesta una specifica posizione di garanzia, su di lui gravando l’obbligo ex art. 40 cpv. c.p., di attivarsi al fine di rimuovere, nel caso di specie, la situazione di pericolo per l’incolumità del terzi, integrata nel caso di specie dalla vetustà del rivestimento dell’edificio condominiale tale da provocare la caduta di calcinacci e parti di rivestimento, fonte di pericolo per i passanti, così come accaduto all’odierna persona offesa.

Si tratta di un’affermazione corretta in punto di diritto.

L’obbligo di attivarsi onde eliminare la riferita situazione di pericolo non doveva ritenersi subordinato, infatti, come erroneamente sostenuto anche in questa sede, alla preventiva deliberazione dell’assemblea condominiale ovvero ad apposita segnalazione di pericolo tale da indurre un intervento di urgenza.

Il disposto dell’art. 1130 c.c., n. 4, viene interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità – come si ricorda nel provvedimento impugnato – nel senso che sull’amministratore grava il dovere di attivarsi a tutela dei diritti inerenti le parti comuni dell’edificio, a prescindere da specifica autorizzazione dei condomini ed a prescindere che si versi nel caso di atti cautelativi ed urgenti (così le richiamate sentenze di questa sez. 4 n. 3959/2009 e n. 6757/1983).

La Corte territoriale, condivisibilmente, rileva che dalla lettera dell’art. 1135 c.c., u.c., si evince peraltro, a contrario, che l’amministratore ha facoltà di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria, nel caso rivestano carattere di urgenza, dovendo in seguito informare l’assemblea.

E perciò i giudici del gravame del merito concludono logicamente nel senso che nel caso in esame era indubitabile che l’eliminazione, attraverso attività di spicconatura o di opere di contenimento di parti del rivestimento della facciata dello stabile condominiale rappresentasse intervento conservativo del diritto sia manutentivo di ordine urgente anche a tutela della incolumità dei passanti, e quindi determinante dell’obbligo di agire ex art. 40 c.p., comma 2.

5. La decisione della Corte napoletana opera, come si diceva, un buon governo di alcuni principi giuridici più volte affermati da questa Corte di legittimità che vanno qui ribaditi.

In primis, quello per cui L’amministratore del condominio riveste una specifica posizione di garanzia, ex art. 40 c.p., comma 2, in virtù del quale ha l’obbligo di attivarsi per rimuovere le situazioni di pericolo per l’incolumità di terzi (sez. 4, n. 34147 del 12.1.2012, Turchini, rv. 254971 nella specie rappresentata dall’omesso livellamento della pavimentazione dell’edificio condominiale che aveva determinato la caduta di un passante).

La responsabilità penale dell’amministratore di condominio va ricondotta nell’ambito della disposizione (art. 40 c.p., comma 2) per la quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”.

Per rispondere del mancato impedimento di un evento è necessario, cioè, in forza di tale norma, l’esistenza di un obbligo giuridico di attivarsi allo scopo: detto obbligo può nascere da qualsiasi ramo del diritto, e quindi anche dal diritto privato, e specificamente da una convenzione che da tale diritto sia prevista e regolata com’e nel rapporto di rappresentanza volontaria intercorrente fra il condominio e l’amministratore, (così questa sez. 4, n. 39959 del 23.9.2009, Gilardi, che, in applicazione di tale principio, ha ritenuto configurabile a carico dell’amministratore di condominio di un obbligo di garanzia in relazione alla conservazione delle parti comuni, in una fattispecie di incendio riconducibile ad un difetto di installazione di una canna fumaria di proprietà di un terzo estraneo al condominio che attraversava parti comuni dell’edificio).

L’amministratore di condominio in quanto tale assume, dunque, una posizione di garanzia ope legis che discende dal potere attribuitogli dalle norme civilistiche di compiere atti di manutenzione e gestione delle cose comuni e di compiere atti di amministrazione straordinaria anche in assenza di deliberazioni della assemblea. Da ciò quindi consegue la responsabilità per omessa rimozione del pericolo cui si espone l’incolumità di pubblica di chiunque acceda in quei luoghi, e per l’eventuale evento dannoso che è derivato causalmente dalla situazione di pericolo proveniente dalla scarsa o dativa manutenzione dell’immobile.

6. La giurisprudenza di questa Corte ha affrontato il tema soprattutto con riferimento al reato – diverso da quello che ci occupa – ex art. 677 c.p..

Un condivisibile ed assolutamente maggioritario orientamento di questa Corte di legittimità afferma esservi una posizione di garanzia dell’amministratore di condominio, tenuto, in quanto tale, a vigilare sulle cose comuni e ad effettuare i necessari lavori di rimozione del pericolo derivante da minaccia di rovina e più in generale al dovere di effettuare lavori di manutenzione straordinaria che rivestano carattere di urgenza con specifico obbligo di riferirne ai condomini nella prima assemblea ai sensi dell’art. 1135 II comma c.c. (cfr. sez. 1, n. 7764 del 19.6.1996, Vitale, rv. 205533; conf. sez. 1, n. 9027 dell’8.1.2003, Argentieri, rv. 223696; sez. 4, n. 13934 del 29.1.2008, Giordano ed altri, rv. 239225).

L’amministratore è stato riconosciuto responsabile in base all’art. 677 c.p., per l’omissione di lavori di manutenzione ordinaria, indispensabili al fine di scongiurare pericoli derivanti dalle parti comuni dell’edificio. La responsabilità dell’amministratore sussiste tuttavia solo per i lavori necessari alla manutenzione ordinaria, mentre per quella straordinaria egli ha il dovere di intervenire solo per le opere urgenti e improrogabili.

Analogamente accade per gli intonaci pericolanti dell’edificio. La norma penale prevede che, anche un soggetto diverso dal proprietario può essere obbligato alla manutenzione o riparazione dell’edificio.

Quindi, in un condominio in cui sia stato qualificato responsabile l’amministratore, grava su costui l’obbligo giuridico di rimuovere ogni situazione di pericolo che discenda dalla rovina di parti comuni, cui egli sia tenuto a conservare in buono stato.

In tale evenienza, vi è responsabilità del proprietario di tipo solo sussidiario, quando l’amministratore non possa adempiere ai propri obblighi per cause non riconducibili alla sua volontà.

Obbligo autonomo del proprietario, inoltre, si ravvisa nel momento in cui per fattori imprevedibili l’amministratore non sia in grado di attivarsi per evitare il pericolo di rovina già manifestatosi.

Esauriente appare la spiegazione fornita sul punto in più pronunce da questa Corte di legittimità, la quale ha affermato che l’amministratore di un condominio, il quale agisca per conto dello stesso oppure per conto di un singolo proprietario, è titolare dei poteri relativi alla gestione e conservazione della cosa comune e dei servizi comuni, comprendendosi in tale accezione anche l’obbligo di attivarsi al fine di eliminare situazioni di pericolo che possano comportare una violazione dell’obbligo giuridico del neminem laedere.

L’obbligo di cui all’art. 677 c.p., in caso di mancanza di un amministratore, grava invece sul proprietario (o sui proprietari) dell’edificio condominiale (anche in virtù di quanto dispone l’art. 2053 c.c.) ed è obbligo che è del tutto indipendente dalla causa che ha determinato il pericolo, essendo irrilevante sia l’origine del pericolo che la sua attribuibilità all’obbligato o la sua derivazione da caso fortuito o da forza maggiore (cfr. sez. 1 sent.9866/96).

7. Come evidenziato nel richiamato e condivisibile arresto giurisprudenziale costituito dalla sentenza 39959/2009, in casi come quello che ci occupa, in applicazione dei principi di diritti enunciati da questa Corte, quali appena ricordati, i giudici del merito, ai fini dell’affermazione di colpevolezza dell’amministratore del condominio in ordine al reato ascrittogli, avrebbero dovuto dunque procedere ad un duplice accertamento: 1) individuare la condotta in concreto esigibile in relazione alla posizione di garanzia dello stesso; 2) accertare se, una volta posta in essere dall’ A. la condotta così individuata, e (secondo la contestazione) colposamente omessa, l’evento non si sarebbe verificato: e ciò al fine di poter giungere, sulla base del compendio probatorio disponibile – ed esclusa altresì l’interferenza di fattori alternativi – alla conclusione che quella la condotta omissiva era stata condizione necessaria dell’evento con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica” (c.d. giudizio controfattuale).

Ebbene, la Corte napoletana appare avere ben adempiuto a tale controllo.

Un passaggio è assolutamente dirimente e deve essere anche in questa sede ribadito: eliminare il pericolo non vuoi dire, per forza, far eseguire interventi di manutenzione ma anche semplicemente predisporre le cautele più idonee (es. attraverso la predisposizione di transenne) a delimitare la zona pericolosa per far poi deliberare l’assemblea in merito al da farsi. Oppure, in casi come quello che ci occupa, far rimuovere le mattonelle che rischiavano di cadere.

Si pensi all’amministratore che, consapevole del pericolo derivante dal possibile distacco del cornicione, pur avendo informato l’assemblea, come il più delle volte accade, non abbia nella cassa del condominio i fondi necessari ad ordinare quell’intervento risolutore che tarda a causa dell’inoperatività dell’organo assembleare.

In casi come questi l’amministratore di condominio deve, al fine di andare esente da responsabilità penale, intervenire sugli effetti anzichè sulla causa della rovina, ovverosia prevenire la specifica situazione di pericolo prevista dalla norma incriminatrice interdicendo – ove ciò sia possibile – l’accesso o il transito nelle zone pericolanti” (cfr. la sentenza di questa Corte n. 21401/2009).

In definitiva il rappresentante dei condomini non sarà imputabile laddove, pur di fronte all’immobilismo dell’assemblea, si adoperi per impedire che la parte pericolante dell’edificio possa causare un rischio per l’incolumità delle persone.

Così, nella situazione concreta oggi in esame, sarebbe stato sufficiente che l’amministratore avesse transennare la zona sottostante la facciata da cui si sono staccate le mattonelle che hanno provocato le lesioni a S.P., rimandando all’assemblea la decisione sull’intervento risolutore. Del resto che il problema fosse noto all’odierno ricorrente lo si evince proprio da uno dei punti su cui egli ha fondato la propria difesa: le plurime assemblee convocate e risoltesi con un nulla di fatto. Ne da atto anche il giudice di pace nella sentenza di primo grado, a pag. 4, dove ricorda che la circostanza venne confermata in dibattimento dal teste P.M..

8. In ultimo, va rilevato come appaia infondata la dedotta prescrizione del reato.

Ed invero, come si evince dagli atti, in data 5.7.2012 vi fu dinanzi al Giudice di pace di Acerra un rinvio dell’udienza per l’adesione del difensore all’astensione proclamata dai propri organismi di categoria.

Orbene, tali rinvio (dal 5.7.2012 al 14.2.2013) ha determinato una sospensione della prescrizione pari a mesi 7 e gg. 9.

La giurisprudenza di questa Corte di legittimità, infatti, è pacificamente orientata nel senso che, in tema di sospensione della prescrizione, il limite di sessanta giorni previsto dall’art. 159 c.p., comma 1, n. 3, non si applica nel caso in cui il differimento dell’udienza sia determinato dalla scelta del difensore di aderire alla manifestazione di protesta indetta dalle Camere penali, con la conseguenza che, in tal caso, il corso della prescrizione può essere sospeso per il tempo, anche maggiore di sessanta giorni, ritenuto adeguato in relazione alle esigenze organizzative dell’Ufficio procedente (così, ex multis, sez. 3 n. 11671 del 24.2.2015, Spignoli, rv. 263052 nella cui motivazione, questa Corte ha precisato che la adesione alla astensione dalle udienze non costituisce un impedimento a comparire in senso tecnico; conf. sez. 4, n. 10621 del 29.1.2013, M., rv. 256067; sez. 5, n. 18071 dell’8.2.2010, Piacentino ed altri, rv. 247142).

Il termine massimo di prescrizione del reato, nel caso in esame, tenuto conto delle intervenute sospensioni, sarebbe spirato l’11.1.2016.

9. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2015.

Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2015