Situazione diversa, rispetto alla locazione di un immobile ad uso diverso da abitazione, sono i contratti per spazi dentro centri commerciali.
Come si configurano allora i contratti per spazi dentro centri commerciali?
Di primo acchito, qualora il proprietario del centro commerciale conceda a un diverso soggetto il diritto di utilizzare uno spazio all’interno di tale struttura, al fine di esercitarvi un’attività economica, verrebbe da affermare che si tratta comunque di locazione di immobile, magari accompagnata da pertinenze mobiliari.
Tale è il caso esaminato dalla Cassazione nella sentenza del 23 settembre 2016, n.18748, ove viene riconosciuto che anche quando il contratto di locazione abbia ad oggetto immobili interni o complementari a centri commerciali, deve essere riconosciuta l’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, quando sussistono ricorrano i presupposti fissati dall’art. 34 della legge n. 392 del 1978.
Tale sentenza presenta un certo interesse, poiché la Corte affronta lo spinoso tema dell’avviamento.
Come mostra la prassi, però, di solito gli spazi in questione non sono concessi mediante la stiplulazione di un contratto di locazione.
In effetti, molto spesso siffatto rapporto viene invece costruito come affitto di ramo d’azienda e, dunque, assoggettato ad un regime completamente diverso rispetto alla locazione regolamentata dalla legge 392/78. La questione diventa allora capire se e quando ciò risulta corretto.
Una prima ipotesi si configura quando la proprietà dell’intero centro commerciale è sostanzialmente riconducibile ad un unico soggetto, diverso da tutti coloro cui esso concede il diritto di utilizzare i vari spazi disponibili all’interno della struttura, godendo dei relativi servizi.
Tale situazione, poi, può presentare due diverse sfaccettature, però di carattere non secondario, ricollegabili al momento in cui viene concesso il diritto all’uso del singolo spazio. Ciò può avvenire, infatti:
- quando l’intero centro commerciale non ha ancora iniziato la propria attività, perché appena edificato
- ovvero quando – al contrario – quest’ultima è già in corso da parecchio tempo.
Nel primo caso, si assisterà alla progressiva cessione dei vari spazi disponibili, sino al loro esaurimento. Qui pare incongruo parlare di un avviamento complessivo del centro commerciale.
Nel secondo caso, invece, l’utilizzatore di un singolo spazio cessa il proprio rapporto e, al suo posto, interviene un nuovo utilizzatore, il quale potrà esercitare un’attività simile ovvero completamente diversa (ad esempio, vendere lo stesso prodotto recante il medesimo marchio o prodotti analoghi con marchio differente o, ancora, prodotti di genere del tutto differente, contrassegnati o meno da marchi comunque non in competizione con quelli del precedente occupante).
Qui è invece ragionevole sostenere la presenza di un avviamento complessivo di tutto il centro commerciale, di cui beneficia chi va ad occupare uno spazio al suo interno.
Soprattutto nelle grandi strutture, è poi alquanto difficile che il proprietario del centro commerciale sia il titolare dei vari marchi presenti sulle insegne degli esercizi insediati all’interno del complesso edilizio. Anzi, è quasi sicuro l’opposto, specie quando gli esercizi in questione appartengono a catene in franchising.
Per contro, il proprietario del centro commerciale può anche essere il titolare della licenza amministrativa per tutte (o buona parte) le attività presenti all’interno del centro commerciale.
Una seconda ipotesi è, invece, quella in cui la proprietà del centro commerciale risulta suddivisa tra diversi soggetti, cui sono assegnati i diversi spazi ricavati al suo interno. Ciascuno di loro può poi trovarsi in una posizione molto diversificata.
Da un canto, la situazione può apparire abbastanza simile a quella in precedenza esaminata dell’unico proprietario del centro commerciale, nel senso che – in buona sostanza – ci si limita a dare in concessione lo spazio a terzi, sussistendo ben pochi “legami” tra l’attività da questi ultimi esercitata e quella di chi è proprietario dello spazio stesso.
Per chiarire: il suo proprietario non ha alcun ruolo nel processo di produzione e distribuzione della merce ovvero dei servizi offerti al pubblico dagli occupanti tale locale, né il primo ha la titolarità dei marchi utilizzati dai secondi. Esempio abbastanza palese è quando nello spazio viene installato uno sportello bancario ovvero una farmacia.
D’altro canto, potrebbe anche sussistere la situazione opposta. Anche qui, però, variano le sfumature, a seconda dei casi. Tra le tante, vediamo alcuni estremi.
Il proprietario potrebbe produrre egli stesso la merce, poi commercializzata da terzi nello spazio in precedenza allestito dallo stesso proprietario, che viene consegnato “chiavi in mano” agli occupanti, ivi comprese le insegne. Essi potrebbero addirittura subentrare nell’esercizio di un punto commerciale, già in precedenza avviato dallo stesso proprietario e magari inserito all’interno della stessa rete di vendita al dettaglio da quest’ultimo direttamente gestita, sino alla decisione di cederla a terzi spezzettandola.
Ovvero, il proprietario dello spazio potrebbe semplicemente essere il produttore della merce lì commercializzata da terzi, che fungono da rivenditori indipendenti al dettaglio, ai quali viene concesso l’uso di uno spazio privo di qualsiasi tipo di allestimento ed avviamento, accompagnato (o meno) dall’obbligo di arredarlo a proprie spese secondo alcuni criteri predefiniti.
Contratto d’affitto di ramo d’azienda
Quando le parti non stipulano un contratto di locazione, tendono solitamente a configurare la loro relazione come affitto di ramo d’azienda, con riferimento al quale il legislatore si limita a stabilire – e precisamente nell’art. 2562 – che le disposizioni in tema di usufrutto di azienda si applicano anche nel caso di suo affitto. Essendo però queste ultime insufficienti a regolare compiutamente il rapporto e dovendosi quindi integrare il quadro normativo, la giurisprudenza ha esteso all’affitto di azienda l’applicazione delle norme del codice civile in materia di locazione ed affitto. Così Cassazione, 6 febbraio 2004, n. 2240 (conforme 28 gennaio 2002, n.993):
“nel codice civile tra le norme sulla locazione e quelle sull’affitto, compreso l’affitto di azienda, corre il rapporto tipico tra norme generali e norme speciali, per cui se la fattispecie non è regolata da una norma specificamente prevista per l’affitto dovrà farsi ricorso alla disciplina generale sulla locazione di cose, salva l’incompatibilità con la relativa normazione speciale.”
Ciò nonostante – e qui sta il nodo cruciale di tutto – giurisprudenza e dottrina sono altresì concordi nell’escludere che il contratto di locazione d’azienda è soggetto alla legge n. 392 del 1978, in quanto normativa speciale prevista espressamente per le locazioni immobili, “giustificandosi la difformità di trattamento con il rilievo che l’azienda costituisce un’entità complessa di beni destinata all’esercizio di un’impresa, con caratteristiche ed esigenze di natura economica, sociale e giuridica nettamente distinte da quelle di un immobile destinato ad attività commerciale”
Così infatti si è pronunciata la Suprema Corte già nella sentenza 10 maggio 1989, n. 2138, cui è conforme la successiva decisione 12 giugno 1995, n. 6591.
Di conseguenza, se il diritto ad utilizzare uno spazio posto all’interno di un centro commerciale viene regolamentato come affitto di ramo d’azienda, il rapporto non è sottoposto ad una durata minima, né durante la sua pendenza sussistono limitazioni all’adeguamento del corrispettivo per l’uso del locale. Neppure insorge il diritto all’indennità per la perdita dell’avviamento alla cessazione del rapporto, né alcun diritto di prelazione in caso di vendita dello spazio ovvero di sua locazione a terzi.
Ancora, se gli utilizzatori trovano un terzo, cui vorrebbero “trasferire” l’attività esercitata nello spazio commerciale, non solo l’aspirante subentrante non ha diritto di sostituirsi agli utilizzatori nella loro posizione contrattuale con il proprietario dello spazio, ma l’intera operazione può verosimilmente essere subordinata al preventivo consenso di quest’ultimo (potere da lui conservato, rivestendo la qualità di titolare del ramo d’azienda affittato). Infine, non vigono limiti al deposito cauzionale eventualmente richiesto, cosa però decisamente marginale.
In effetti, detti aspetti dell’affitto di ramo d’azienda non sono assoggettati ad alcuna norma di carattere imperativo, per cui le parti sono libere di disporre, addivenendo spesso a soluzioni decisamente più gravose per l’affittuario. Il legislatore disciplina siffatti contratti sotto diverso profilo: la successione dell’affittuario nei contratti (art. 2558 c.c.) nonché nei crediti (art. 2559 c.c.) e nei debiti (art. 2560 c.c.) del cedente, inerenti l’azienda o il suo ramo affittato.
Ciò però avviene con norme aventi nella maggior parte dei casi carattere dispositivo, sì che le parti hanno anche facoltà di escludere il passaggio dei rapporti e dei debiti con il contratto di affitto, fatta eccezione per quanto concerne le relazioni di lavoro instaurate dal cedente (art.2112 c.c.) nonché i debiti fiscali e tributari di sua competenza, cui viene necessariamente coinvolto anche l’affittuario. Con riferimento a tale rischio, quest’ultimo deve quindi cautelarsi, sia mediante un’attenta verifica dei bilanci e dell’intera situazione contabile del cedente, sia facendosi prestare da terzi apposite garanzie (se il caso lo richiede e se egli possiede la necessaria forza per pretenderle in sede di trattativa).
Le clausole contenute nei contratti di affitto d’azienda sono difficilmente standardizzabili, siccome devono rispondere alle peculiarità di ogni singolo caso. In via di massima, però, si può innanzitutto rilevare che, redigendo siffatti accordi (pur essendo cosa complessa) non insorgono particolari timori circa la loro “tenuta” per l’eventualità di una revisione giudiziale, quando nel concreto sussiste effettivamente il loro oggetto, e cioè quando è ravvisabile l’esistenza di un ramo d’azienda, inteso quale complesso di beni di per sé idoneo e sufficiente ad un esercizio di impresa (F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, Padova, III, 1, 1999, p.88; S. BIELLI, Commento sub. art. 2562, in AA. VV., La giurisprudenza sul codice civile, curata da C. RUPERTO, Milano, 2005, 3602).
La capacità a svolgere detta funzione, però, tende a scemare man mano che viene meno la consistenza dei beni e dei rapporti giuridici compresi nel ramo d’azienda, rendendo così sempre più labile e precaria la sua stessa identificazione. Quanto più ci si avvicina alla materiale disgregazione del ramo d’azienda, tanto più la situazione tende a confondersi con quella caratterizzante un mero rapporto di locazione di immobile con pertinenze.
Ciò premesso, vediamo ora sommariamente il probabile contenuto di un contratto d’affitto di ramo d’azienda ricollegabile all’uso di uno spazio all’interno di un centro commerciale, ribadita comunque la necessità di adeguare specificamente il testo contrattuale alle peculiarità ed alle precipue esigenze di ogni singolo caso, le quali rappresentano nel contempo i limiti materiali con cui deve confrontarsi il redattore del contratto.
La durata è liberamente determinabile, sotto ogni profilo: il periodo, la sorte del contratto alla scadenza fissata (per chiarezza, si può espressamente escludere la tacita rinnovazione ); il recesso di entrambe parti.
Lo stesso dicasi per il canone. La sua misura può anche essere pattuita in forma mista, e cioè suddividendolo in una quota fissa ed in una quota percentuale del fatturato realizzato dall’affittuario del ramo d’azienda (magari differenziata per scaglioni, decrescenti con l’aumentare del fatturato). Quando è così, il cedente/proprietario dello spazio si assicura penetranti diritti ispettivi sulla contabilità dell’affittuario, la cui violazione comporta la risoluzione immediata del contratto.
Comunque calcolato, il canone di locazione è poi soggetto ad incrementi durante la vigenza del rapporto secondo parametri originariamente prefissati, di cui una sola cosa è assolutamente certa: la loro completa antitesi rispetto agli scopi “calmieratori” individuati dal legislatore all’art.32 della legge 392/78 (su cui al caso 5.8). Ad esempio, si può incidere:
- sulla sola quota fissa del canone, mediante un mero aumento percentuale oppure sancendo che essa diverrà pari all’importo che risulterà il maggiore tra alcuni parametri (quali: la quota fissa aumentata di una certa percentuale, da un canto, e l’intero canone pagato nel periodo precedente aumentato di altra percentuale, dall’altro)
- sulla sola quota proporzionale del fatturato, prevedendo un aumento graduale delle percentuali sui singoli scaglioni o aumentando la fascia coperta dagli scaglioni più gravosi
- su entrambe dette quote.
Tali previsioni sono talora integrate con precisi obblighi, posti a carico dell’affittuario, di raggiungere determinati obiettivi minimi di fatturato, che a loro volta possono incrementare nel tempo. Obblighi spesso rafforzati, ricollegando alla loro violazione (magari se ripetuta nel corso di due o più anni) la risoluzione immediata del contratto.
Le spese di manutenzione vanno pressoché sempre a gravare sull’affittuario, insieme agli oneri accessori. Spesso, si accompagna l’obbligo per quest’ultimo di concorrere alle spese sostenute dal concedente per la pubblicità svolta in favore dell’intero centro commerciale.
Le modalità di conduzione del ramo d’azienda affittato sono oggetto di precisa disciplina, specie quando l’insieme di beni e rapporti trasferiti ha una rilevante consistenza (in altre parole, quando l’operazione economica sarebbe così sicuramente configurabile, a prescindere dalla concessione – che anche potrebbe mancare – del diritto di utilizzare uno spazio all’interno di un centro commerciale).
In tale ottica, oltre menzionati obblighi sui minimi di fatturato, vengono introdotti quelli alla conservazione di scorte minime, all’effettuazione di campagne pubblicitarie relative alla specifica attività svolta dall’affittuario, alle vendite promozionali, all’assistenza post-vendita, ad arredare lo spazio secondo precisi criteri qualitativi (a volte descritti con estremo puntiglio in appositi allegati tecnici), a mantenere determinati orari di apertura. Sempre in tale contesto, trova altresì ragione il patto di non concorrenza.
L’uso dello spazio è specificamente consentito per le sole attività predeterminate. Ciò trova una duplice ragione: se il ramo d’azienda affittato ha una vera consistenza, tale vincolo contribuisce a garantire che l’impresa non venga snaturata senza il consenso del cedente; in caso contrario, il vincolo è comunque utile a garantire un certo equilibrio tra le varie attività presenti nel centro commerciale.
L’eventuale concessione all’uso dei marchi appartenenti al cedente è ovviamente accompagnata da tutte le disposizioni contrattuali che ne regolano le modalità di utilizzo, vietandolo altresì con effetto immediato a partire dal momento in cui l’affitto del ramo d’azienda viene a cessare.
Il contratto è spesso caratterizzato dall’espressa dichiarazione dell’intuitus personae, nel senso che le qualità personali dell’affittuario sono considerate determinanti il consenso del concedente alla conclusione del rapporto. Quando presente, tale previsione è sovente estesa anche alla persona del legale rappresentante o all’intera compagine sociale dell’affittuario, se quest’ultimo è una società. Ciò consente al cedente di controllare ed anche impedire (provocando la risoluzione del contratto) qualsiasi passaggio del ramo d’azienda a terzi da lui non graditi. Pacifico che, in siffatta ottica, il subaffitto è decisamente vietato.
Delicata è poi la regolamentazione dei rapporti di lavoro relativi al ramo d’azienda, siccome qui ci si deve confrontare con il citato art.2112 c.c. Tra le varie ipotesi, vi può essere quella che il ramo d’azienda viene affittato privo di dipendenti e deve essere restituito nelle medesime condizioni, cui si aggiunge l’obbligo di manleva dell’affittuario in favore del cedente, qualora i dipendenti assunti dal primo riescano poi ad esperire un’azione vittoriosa contro il secondo.
Non del tutto marginali, infine, sono le disposizioni che impongono all’affittuario di stipulare nuovi contratti di fornitura con le società somministratici di energia, acqua e servizi di telefonia.
Infine, a salvaguardare l’effettività delle obbligazioni pecuniarie a carico dell’affittuario, quest’ultimo è molto spesso tenuto a procurare un autorevole garante in favore del cedente. Clausole penali rafforzano invece il rispetto degli altri obblighi cui è tenuto l’affittuario.
Conclusioni
Nonostante uno spazio all’interno di un centro commerciale può essere oggetto di un contratto di locazione d’immobile, magari accompagnato da pertinenze mobiliari, nella prassi il rapporto viene perlopiù costruito come affitto di ramo d’azienda. Ciò consente ampia autonomia contrattuale, non vigendo in tale ipotesi i vincoli posti dalla legge 392/78.
Tuttavia, siffatta soluzione rischia di essere censurata in sede giudiziaria, soprattutto quando appare evanescente individuare il ramo d’azienda oggetto del contratto, per l’inconsistenza dei beni e dei rapporti giuridici nel cui godimento viene immesso l’affittuario.