Stipulare un contratto di locazione è sì operazione frequente nonché consueta, ma ciò non significa affatto che la stesura del testo contrattuale è un problema trascurabile, da risolversi utilizzando il primo modello che capita, integrandolo magari “alla meglio” con qualche clausola finale per adattarlo ai propri voleri. Così procedendo, infatti,  si tende a non preoccuparsi di due cose invece fondamentali: se il contratto stipulato è valido; se, pur andando esente da qualunque vizio che ne inficia la validità, l’accordo contiene una disciplina che risponde effettivamente alle proprie esigenze ovvero nasconde “trappole”, pronte a scattare magari a distanza di tempo e nel momento meno opportuno, con ripercussioni patrimoniali non indifferenti.

La causa di tutto ciò è principalmente riconducibile al fatto che l’autonomia contrattuale non gode di piena libertà nell’ambito dei rapporti di locazione, ma deve fare i conti con vari “paletti” posti dal legislatore in modo peraltro eterogeneo, giacché essi variano a seconda dell’uso che venga fatto di un immobile.

Per comprendere le locazioni è allora necessario mettere innanzitutto alla luce quali sono, a seconda dei casi, gli spazi di libertà in cui all’autonomia contrattuale è concesso spaziare.

In effetti, sono trascorsi vari anni dall’entrata in vigore della l. 431/98 (che ha dato una sistemazione – si spera – definitiva alle locazioni abitative) e quasi trent’anni dall’entrata in vigore della l. 392/78 (la quale ancora oggi regola i rapporti locativi ad uso diverso dall’abitazione), provvedimenti che si sono sovrapposti alla disciplina civilistica, senza però abolirla del tutto. Obiettivamente, legiferare in materia locatizia non è mai facile, in quanto gli interessi in gioco sono molteplici, le tendenze contrapposte e le resistenze al nuovo particolarmente pronunciate.

La svolta più significativa è avvenuta nel campo delle locazioni ad uso abitativo.

Rispetto alla legislazione vincolistica degli anni ’70 (che soprattutto per tali rapporti negava l’idea stessa di mercato, creando così un settore che si poneva in antitesi con l’interno sistema economico – interno ed internazionale – strutturato invece proprio su tale meccanismo),  con la riforma del 1998 si è passati ad una normativa di sostanziale equilibrio, basata sul principio di libera scelta delle parti. Accanto alla possibilità di stipulare contratti praticamente liberi, vi è anche quella di decidere se avvalersi di altra strada, e cioè i contratti “concordati”, la cui convenienza è ricollegabile agli sgravi fiscali sia per il locatore che per il conduttore, purché la loro effettiva esistenza non venga svilita o compromessa da successivi inasprimenti tributari, a livello nazionale o locale (oggi sembra proprio essere l’imposizione fiscale comunale a preoccupare maggiormente sotto tale profilo).

Il sensibile calo degli sfratti per finita locazione pare confermare l’equilibrio di questa soluzione normativa. Non sembra poi alieno sostenere che la notevole espansione del mercato immobiliare – registratasi in questi ultimi anni – sia anche stata favorita dalla menzionata riforma, che ha consentito di ottenere un congruo ritorno a chi ha investito nel “mattone”. Sotto altro verso, però, in varie città italiane tale fenomeno sta anche innescando un effetto “calmieratore” sui canoni di locazione, questa volta derivante però non da una misura legislativa (come fu negli anni ’70), ma dallo stesso basilare meccanismo che regola il mercato: la relazione tra la domanda e l’offerta. Molti sono infatti gli immobili costruiti o ristrutturati in questi anni ed ora offerti in locazione. Un imposizione fiscale a carattere reddituale sugli immobili (anziché patrimoniale, come oggi accade) consentirebbe allora di perfezionare ulteriormente il sistema, rendendolo più confrontabile e competitivo rispetto ai mercati mobiliari, la cui volatilità si accanisce solitamente sugli investitori più inesperti, e cioè chi sovente deve decidere se investire i propri risparmi in azioni o nell’acquisto di un immobile da “mettere a reddito”.

Al di là delle ideologie, ciò significa che il rapporto tra proprietario e conduttore non è più puramente conflittuale, ma trova nell’ambito della legge in esame un agevole terreno di contemperamento dei rispettivi interessi.

Restano i conduttori facenti parte delle cosiddette “fasce deboli”, ove sono necessari interventi mirati sull’edilizia pubblica convenzionata (ivi compresi quelli volti ad evitare gli abusi da parte di chi non ha diritto a beneficiarne), ma che esulano tuttavia dal rapporto privato di locazione in esame. Meritorie sono poi le recenti iniziative di “housing sociale”, proposte dal mondo solidaristico.

Diversa è, invece, la normativa relativa ai contratti per usi diversi dall’abitazione, ancora risalente all’anno 1978.

Sebbene già all’epoca fosse meno vincolistica, tale disciplina risente comunque del periodo storico in cui venne emanata. Inoltre, essa non tiene conto  dall’evoluzione avvenuta soprattutto nel settore del commercio, cosa all’epoca non prevedibile. Si renderebbe allora necessario un intervento di rinnovamento e liberalizzazione, anche perché l’attuale situazione è caratterizzata da una irragionevole disparità di trattamento, che va spesso a discapito di chi occupa uno spazio all’interno di un centro commerciale, il cui rapporto spesso non rientra nell’ambito di applicazione della legge 392/78.

Altra causa, responsabile per le menzionate patologie del rapporto di locazione, è invece individuabile nelle distorsioni provocate dal legislatore stesso, che nella storia della nostra Repubblica (per una testimonianza sulla situazione in epoca precedente: L. EINAUDI, Il problema delle abitazioni, lezioni tenute all’Università Luigi Bocconi dal 26 aprile al 2 maggio 1920) ha ripetutamente paralizzato – anche in modo incostituzionale – uno dei diritti fondamentali del locatore: riottenere la disponibilità dell’immobile alla scadenza del rapporto. Tale fenomeno è poi accompagnato da altro triste quanto noto fattore, rappresentato dalle croniche disfunzioni del nostro sistema giudiziario.

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