La riforma della regole europee sulla produzione biologica
Nel mese di aprile 2018 si è concluso il complesso procedimento legislativo – che ha coinvolto il Consiglio Europeo (dove siede e vota il rappresentante del Governo italiano), il Parlamento (i cui membri italiani sono 75 su un totale di 751, sebbene siano organizzati in base allo schieramento politico e non alla nazionalità) e la Commissione – per la modificazione del regolamento generale dell’Unione Europea sull’agricoltura biologica e l’etichettatura dei prodotti così ottenuti, attualmente costituito dal Regolamento “base” 834/2007 del Consiglio UE.
Quest’ultimo è poi completato dalle sue norme attuative, portate dal Regolamento 889/2008 della Commissione, al cui interno si trovano anche le disposizioni sulla produzione del vino biologico (art. 29 ter e ss.).
La nuova normativa “di base” – costituita dal regolamento 848/2018/UE del Consiglio e del Parlamento, molto più dettagliata della precedente – entrerà in vigore nell’anno 2021. Sebbene il “vecchio” (ma ancora vigente) regolamento venga formalmente abrogato, la disciplina che porta non è completamente stravolta da quello “nuovo”, ma solo modificata in alcune parti.
Di conseguenza, nel frattempo la Commissione dovrà provvedere ad emanare le relative norme di attuazione, così modificando a sua volta quelle attualmente in essere, ove necessario.
Esaminare in modo specifico l’intero nuovo regolamento non è qui materialmente possibile. Limitiamoci quindi ad evidenziarne alcuni aspetti significativi.
L’idea fondante l’intera materia è che “il rispetto di norme rigorose in materia di salute, di ambiente e di benessere degli animali nell’ambito della produzione biologica è intrinsecamente legato all’elevata qualità di tali prodotti”. Inoltre, le regole sulla produzione biologica – focalizzate sulla sostenibilità – vengono considerate come uno strumento attuativo degli stessi obiettivi sia della PAC (Politica Agricola Comunitaria) che della stessa politica ambientale europea.
Entrando nel dettaglio, il nuovo regolamento individua con precisione quali sono i prodotti che, osservando le pertinenti disposizioni di produzione da esso fissate, possono essere poi considerati (e quindi etichettati) come “biologici”: quelli provenienti dall’agricoltura, incluse l’acquacoltura e l’apicoltura; i prodotti agricoli trasformati destinati ad essere utilizzati come alimenti o mangimi ed altri aventi simili caratteristiche d’impiego, come il lievito; il sale marino e altri sali utilizzati per gli alimenti e i mangimi. Sono invece esclusi i prodotti che provengono dalla caccia o pesca di animali selvatici.
Per quanto concerne la scelta delle varietà vegetali, l’attenzione del legislatore si concentra “sui risultati agronomici, sulla diversità genetica, sulla resistenza alle malattie, sulla longevità e sull’adattamento a diverse condizioni pedoclimatiche locali” nonché sul rispetto delle “barriere naturali per quanto riguarda gli incroci”. Ciò implica che i sistemi di produzione biologica vegetale utilizzino materiale riproduttivo vegetale che sia in grado di adattarsi alla resistenza alle malattie, alle diverse condizioni pedoclimatiche locali e alle specifiche pratiche colturali dell’agricoltura biologica.
Vengono poi ribaditi e rafforzati alcuni precedenti divieti: “L’uso di radiazioni ionizzanti, clonazione animale e animali poliploidi artificialmente indotti od organismi geneticamente modificati (“OGM”), nonché prodotti derivati od ottenuti da OGM, è incompatibile con il concetto di produzione biologica e con la percezione che i consumatori hanno dei prodotti biologici”
Riaffermato il principio secondo cui “i vegetali devono essere nutriti soprattutto attraverso l’ecosistema del suolo”, il che implica che essi siano “prodotti sul, e nel, suolo vivo, in associazione con il sottosuolo e il substrato roccioso” Di conseguenza, in via di principio non vengono considerate biologiche “né la produzione idroponica, né la coltivazione di vegetali in contenitori, sacche o aiuole in cui le radici non sono in contatto con il suolo vivo”. Vi sono però alcune eccezioni: innanzitutto, in favore della produzione di semi germogliati o cespi di cicoria e la produzione in vaso di piante ornamentali e di erbe aromatiche che sono vendute in vaso al consumatore; inoltre, per quegli operatori (attivi solo in Finlandia, Svezia e Danimarca) che hanno sviluppato un’attività economica coltivando vegetali in “aiuole demarcate”, i quali vengono autorizzati a farlo per altri 10 anni. Il che ora esclude la legittimità di tale pratica, al di fuori di detta eccezione.
Il rispetto del suolo porta altresì a richiedere che in ogni fase di produzione, preparazione e distribuzione, gli operatori adottino, “se del caso, misure preventive volte a garantire la conservazione della biodiversità e la qualità del suolo” nonché agiscano – in modo però consono – al fine di prevenire e lottare contro gli organismi nocivi e le malattie, evitando effetti negativi su ambiente e salute di animali e vegetali.
In buona sostanza, il legislatore comunitario richiede di “progettare e gestire in modo appropriato processi biologici basati su sistemi ecologici e impiegando risorse naturali interne al sistema di gestione”. Quando ciò non sia possibile, egli acconsente sì il ricorso a “fattori di produzione esterni”, ma ad alcune condizioni: per quanto concerne il materiale riproduttivo vegetale, il legislatore impone di darsi “priorità alle varietà selezionate per la loro capacità di rispondere alle esigenze e agli obiettivi specifici dell’agricoltura biologica”. In tale ottica, viene demandato alla Commissione il potere di adottare atti regolamentari portanti alcune deroghe, concernenti fra l’altro l’uso del materiale riproduttivo vegetale in conversione o non biologico.
Ritenendosi comunque utile l’uso di “materiale riproduttivo vegetale che non appartenga a una varietà, ma piuttosto a un insieme vegetale nell’ambito di un unico taxon botanico con un elevato livello di diversità genetica e fenotipica tra le singole unità riproduttive”, esso viene permesso nella produzione biologica, consentendone agli operatori la commercializzazione senza dover rispettare i requisiti di registrazione e certificazione previsti da vigenti direttive comunitarie.
Per quanto concerne la gestione e alla fertilizzazione del suolo, sono specificate le pratiche colturali autorizzate e le condizioni per l’uso di concimi e ammendanti. Circa i prodotti fitosanitari, viene sì sancito che il loro impiego dovrebbe essere fortemente limitato, ma non viene vietato, ammettendolo qualora il ricorso ad altre tecniche (quali la rotazione delle colture) “non garantisca una protezione adeguata”.
Pone delicati problemi il verificarsi della presenza di prodotti o sostanze non autorizzati per l’uso nella produzione biologica in prodotti commercializzati come prodotti biologici o in conversione. Il regolamento stabilisce innanzitutto alcuni principi su come debbano essere condotte le indagini per tale accertamento. Poi – essendo mancato l’accordo politico su come disciplinare i casi di loro presenza – il regolamento consente agli Stati membri, che abbiano già sviluppato (come l’Italia) una normativa che vieti di commercializzare come biologici gli alimenti contenenti detti “contaminanti”, di continuare a mantenere il divieto, ma solo nei confronti degli alimenti prodotti sul loro territorio. Per contro, il regolamento impedisce a tali Stati di bloccare l’immissione sul mercato nazionale di prodotti ottenuti in altri Stati membri, che invece contengono siffatti “contaminanti”.
Su questo punto si concentrano principalmente le critiche sollevate in Italia contro il regolamento. Ciò nonostante, il nostro Governo nulla ha detto in occasione dell’ultima votazione tenutasi il 15 maggio 2018 in sede di Consiglio dei Ministri (al contrario di Francia, Svezia, Lituania e Repubblica Caca, che hanno quanto meno formalizzato le loro obiezioni, vertenti però su altre questioni).
Un principio simile vale anche per le ipotesi in cui, per determinate categorie di alimenti, non sussistano norme comunitarie dettagliate sulla produzione biologica (contenute nell’Allegato II al regolamento, nella cui parte IV si trovano anche quelle per il vino biologico, ovvero delegate alla Commissione).
Per quanto concerne l’allevamento di animali, la loro produzione “senza terra” viene vietata, ad eccezione dell’apicoltura. Particolare attenzione è prestata al loro benessere: devono avere accesso continuo a spazi all’aria aperta per fare del moto; vanno evitati o ridotti al minimo sofferenze, dolore o angoscia, in tutte le fasi della loro vita. In via di massima, non è lecito tenere gli animali legati e praticare loro mutilazioni. Viene però permesso, “a determinate condizioni, di introdurre animali allevati in modo non biologico in un’unità di produzione biologica” nonché l’uso di mangimi in conversione provenienti dall’azienda dell’allevatore. Quanto alla salute animale, vietato l’utilizzo preventivo di medicinali allopatici ottenuti per sintesi chimica, compresi gli antibiotici. In caso di malattia o di ferita che necessiti di un trattamento immediato, il ricorso a tali prodotti dovrebbe limitarsi al minimo necessario.
In merito all’etichettatura, merita evidenziare che gli alimenti trasformati dovrebbero essere etichettati come biologici solo quando tutti o quasi tutti gli ingredienti di origine agricola siano biologici.
Introdotte semplificazioni nei controlli sia per i piccoli dettaglianti che vendono prodotti biologici non preimballati (esentati da obblighi di notifica e certificazione) e per i piccoli agricoltori (che possono accedere alla certificazione di gruppo).