Serve realmente la mediazione?

Quale rilevanza assumono le questioni giuridiche in sede di mediazione e, di conseguenza, quale funzione esplicano i consulenti – in particolare gli avvocati – che assistono i litiganti in tale contesto? Le parti devono partecipare personalmente?

La mediation è la negoziazione della lite con l’assistenza di un terzo neutrale, che favorisce l’efficacia della discussione. Detta metodologia è ispirata dall’approccio sistemico alla soluzione del contenzioso, considerato il meccanismo conoscitivo più appropriato per le liti che presentano una certa complessità e vedono coinvolte parti legate da rapporti personali o economici da salvaguardare. Esso è del tutto antitetico a quello che caratterizza il processo civile (fondato su una modalità conoscitiva di tipo lineare).

Nella mediation si evita infatti di incentrare il discorso sullo stabilire cosa sia vero o falso e cosa giusto o ingiusto, siccome ciò condurrebbe a ridurre ogni soluzione negoziale ad un mero compromesso, frutto di trattative condotte sui confini di quelle che le parti reputano le “vere” questioni. Quest’ultimo atteggiamento è proprio del negoziato di posizione, ove i litiganti restano arroccati sulle proprie richieste, le quali non vengono in sostanza modificate per effetto delle concessioni, che ciascuno si dichiara disponibile a fare in favore della controparte.

La mediation vuole invece superare tale angusto contesto. L’obiettivo è l’ampliamento della comunicazione tra i litiganti, attraverso lo scambio di nuove informazioni e il coinvolgimento di nuovi soggetti (almeno il terzo neutrale), in modo da far emergere le reali ragioni dello scontro. Così procedendo, le parti vengono liberate dagli schemi mentali utilizzati sino a quel momento nel conflitto, giacché il terzo – qui risiede l’essenza di questa metodologia, che si esplica durante la cosiddetta “fase esplorativa”, ove si concretizza l’approccio sistemico al contenzioso – indirizza i litiganti ad individuare quali sono i loro concreti interessi in gioco e quali i punti in comune al riguardo.

L’idea è uscire dal conflitto mediante soluzioni il più possibile elastiche, capaci di ridurre al minimo gli effetti dannosi della lite (sia economici che relazionali) per ciascuna delle parti, se non addirittura di generare un plus-valore: cosa ben lontana dalla tradizionale concezione di transazione in perdita, ove ognuna delle parti rinuncia a qualche pretesa pur di appianare la lite.

La peculiare professionalità del terzo neutrale – cosa del tutto nuova per noi – consiste essenzialmente nell’assistere in modo adeguato le parti durante la “fase esplorativa”, favorendo la comunicazione e la riflessione, senza dispensare giudizi (spesso fastidiosi e controproducenti, anche se dati con le migliori intenzioni). Competenza interdisciplinare, dunque, ben diversa rispetto alle cognizioni in possesso di chi è il sommo vate della materia su cui verte la contesa.

Il mediatore mostra una diversa sensibilità nei confronti delle questioni giuridiche caratterizzanti la lite: ciò non significa affatto accantonarle. Semplicemente esse vengono “ridimensionate”, considerandole non come un altare sul quale i litiganti devono immolarsi a loro discapito (e, se lo fanno, a chi giova in definitiva?), ma come uno dei tanti elementi condizionanti le posizioni delle parti in conflitto. In altre parole, alle questioni giuridiche controverse è attribuito il medesimo valore che assume solitamente il quadro giuridico di riferimento nel contesto di una trattativa tra due soggetti desiderosi di concludere tra loro un affare.

È pacifico che la disciplina positiva va debitamente conosciuta, onde agire nel modo più opportuno e legittimo, ma ciò non deve tradursi in un ostacolo insormontabile per l’instauranda relazione contrattuale.

Nell’ambito di una trattativa commerciale, infatti, è pacifico compito dei consulenti (avvocati, commercialisti, altri professionisti) rendere edotti i loro clienti in merito al quadro normativo di riferimento, suggerendo conseguentemente loro le soluzioni ottimali per concludere l’affare stesso nonché avvertendoli sui possibili rischi presenti, ma senza boicottare la trattativa stessa. Ovviamente la decisione finale spetta ai clienti, destinatari dell’attività di consulenza e signori del loro patrimonio.  Una volta acquisita la debita consapevolezza, solo a questi ultimi spetta valutare la bontà economica di un affare e, conseguentemente, se concluderlo o meno nonché definirne le eventuali condizioni.

Lo stesso vale per l’attività dei professionisti che assistono le parti in mediazione: è loro precipua competenza discutere – se utile e tenendo sempre in considerazione lo specifico contesto in cui si opera, rappresentato da una trattativa in sede extragiudiziaria – i profili giuridici del caso, ma unicamente al fine di consentire ai loro assistiti la miglior comprensione circa la propria situazione, sì da permettere a questi ultimi di stabilire se sia più opportuno risolvere la lite mediante una decisione giudiziale ovvero un accordo.

Qualora la prima ipotesi appaia a ragion veduta un’alternativa poco allettante rispetto alla seconda, si spalanca la strada all’uscita dal contenzioso mediante una conciliazione che soddisfi il più possibile i reali interessi dei litiganti. Peraltro, questo è il momento in cui viene meno ogni differenza tra mediazione obbligatoria e facoltativa.

Come affrontare le questioni giuridiche durante la fase esplorativa?

La risposta nasconde una sconcertante semplicità, poiché si scopre che in proposito la tecnica di mediation condivide esperienze maturate anche in altri settori del mondo giuridico, seppure lontani a distanza siderale, quali l’arbitrato delle controversie commerciali internazionali.

Con riferimento all’attività che – senza pregiudicare la propria neutralità o addirittura incorrere nel rischio di venire ricusato – il presidente di un tale collegio arbitrale può svolgere, per aiutare le parti a definire la lite pendente mediante un accordo che evita il lodo, Draetta (ben fermo nel rivendicare “l’orgoglio di arbitrare”) e nel rimarcare la profonda distinzione tra arbitro e mediatore suggerisce di promuovere l’efficiente gestione della procedura:

“Ciò richiede che il presidente possieda in misura elevata tali capacità di gestione, rispettando così le aspettative delle parti e, anzi, cercando continuamente di indurle ad un certo realismo circa la valutazione della fondatezza delle rispettive pretese… Ciò comporta l’identificazione, già dalla fasi preliminari del procedimento, delle questioni da decidere preliminarmente o, comunque, delle questioni più importanti da risolvere”.

Attraverso tale efficiente gestione, il tribunale arbitrale crea, infatti, un clima collaborativo e improntato a razionalità tra le parti e le induce a rivedere con maggiore realismo le proprie aspettative. Ciò può avvenire, per esempio, attraverso domande opportunamente calibrate che il presidente può porre alle parti, … la richiesta che il senior management delle parti sia presente a determinate udienze. Tutti questi passi possono indurre le parti a guardare con maggiore rispetto, o almeno con maggiore attenzione, alle posizioni della controparte e non semplicemente ad ignorarle…

Senza assolutamente offrire alle parti alcun elemento che possa anticipare la decisione, il presidente può, ad esempio, prospettare alle parti stesse le conseguenze che potrebbero derivare dalla decisone, in un senso o nell’altro, di alcune questioni preliminari, in modo da assicurarsi che esse comprendano e valutino il rischio che corrono a seconda della decisione in questione. Può anche spingersi, se ne ricorrono gli estremi, fino a dire che l’intera controversia è molto complessa, che non si presta ad una decisione salomonica e che le parti dovranno valutare attentamente il rischio di uscirne totalmente vincenti o totalmente perdenti a fronte della convenienza di raggiungere esse stesse una soluzione salomonica nell’interesse delle loro rispettive attività di business. Se questo discorso è fatto dinanzi ai capi azienda delle due parti, esso avrà ancora maggiori chances di essere preso in seria considerazione dalle stesse”.

Per forza di cose, quanto prospettato da Draetta non è automaticamente traslabile in sede di mediazione, data la sua profonda differenza ontologica rispetto all’arbitrato, ma fornisce forse interessanti indicazioni su come il mediatore possa affrontare le questioni giuridiche durante la fase esplorativa.

In buona sostanza, egli inviterà i consulenti delle parti a discutere il caso, permettendosi di porre loro domande in proposito, non al fine di giudicare, ma allo scopo di favorire la consapevolezza sulle questioni controverse. Nel fare ciò, da un canto il mediatore dovrà ben tenere conto di essere sfornito di qualsiasi potere decisionale e che nessuno gli sta chiedendo la sua opinione. Peraltro egli nemmeno sarebbe in grado di elaborarla con cognizione di causa, non disponendo di tutte le informazioni solitamente nelle mani di un arbitro, grazie a quanto presente nei fascicoli delle parti.

Dall’altro, l’informalità della mediazione gli consentirà di invitare le parti a discutere anche aspetti giuridici non strettamente ricollegabili alla configurazione del conflitto inizialmente data dalle parti, ovviamente a condizione che si tratti di questioni ragionevolmente rilevanti. Dall’altro ancora (e questa è un’arma potente!), il mediatore proporrà alle parti di valutare se le soluzioni, che l’ordinamento giuridico di riferimento consentirebbe eventualmente loro di raggiungere in sede contenziosa, rispondono effettivamente all’interesse reale delle parti, sia sul piano economico che relazionale.

Come deve comportarsi il mediatore, se ravvisa la presenza di squilibrii tra le parti?

Nella tecnica di mediation, il mediatore è sì tenuto a porsi il problema, siccome la sua deontologia gli impone di salvaguardare sempre il principio di autodeterminazione delle parti, ma la conseguente reazione non deve pregiudicare la sua imparzialità. In effetti, così sancisce il Codice Europeo per i Mediatori:

“Il mediatore deve condurre il procedimento in modo appropriato, tenendo conto delle circostanze del caso, inclusi possibili squilibri nei rapporti di forza… Il mediatore deve informare le parti, e può porre fine alla mediazione, nel caso in cui: sia raggiunto un accordo che al mediatore appaia non azionabile o illegale, avuto riguardo alle circostanze del caso e alla competenza del mediatore per raggiungere tale valutazione… Il mediatore deve adottare tutte le misure appropriate affinché l’eventuale accordo raggiunto tra le parti si fondi su un consenso informato e tutte le parti ne comprendano i termini”.

Di conseguenza, qualora gli “squilibri di forza” tra le parti, relativi alla consapevolezza sulle questioni giuridiche, appaiono minare il principio di libera autodeterminazione delle parti, il mediatore dovrà inizialmente suggerire al soggetto debole di avvalersi della necessaria assistenza di un professionista, rinviando il proseguo della mediazione a nuova seduta. Qualora la situazione sussista e paia insostenibile, il mediatore dovrà infine porre definitivamente termine alla sua attività.

Nella mediation l’insorgere della consapevolezza viene agevolato – se non addirittura reso possibile – ripristinando la comunicazione tra i litiganti, missione che il mediatore realizza facendo scendere i toni del conflitto, e cioè consentendo alle parti di riconoscerne le reali ragioni e porre termine all’escalation di ostilità che solitamente precede l’azione in giudizio. In altre parole, la mediazione aiuta le parti a superare i blocchi psicologici e conoscitivi, che sovente impediscono loro di definire in via volontaria il conflitto.

Presenza delle parti

È assolutamente opportuno che agli incontri di mediazione partecipino le parti personalmente, evitando di farsi assistere da procuratori all’uopo nominati. Difatti, per essere realmente efficace, l’attività del mediatore deve poter raggiungere direttamente i litiganti stessi, perché altrimenti questi ultimi non riuscirebbero a beneficiare di quanto emerge grazie al procedimento cognitivo guidato dal mediatore, né della relativa catarsi quando utile.

La stessa “fase esplorativa” nemmeno avrebbe modo di svilupparsi in modo adeguato, poiché non si riuscirebbe ad attingere a tutte le informazioni di cui solo le parti sono detentrici, quali l’identificazione dei rispettivi interessi.

Chiarito ciò sul piano pratico, dal punto di vista giuridico né la Direttiva comunitaria, né il Decreto Legislativo impongono che alla mediazione partecipino le parti personalmente. Il farlo è dunque lasciato alla loro libera scelta, decisione che dovrebbe forse ispirarsi a criteri di ragionevolezza e opportunità nonché avvenire in piena consapevolezza.

Ecco perché il Decreto Legislativo obbliga i difensori a fornire adeguate informazioni ai loro clienti sull’esistenza e sulla natura della mediazione. Siccome quest’ultima rappresenta una modalità di condurre le trattative in sede extragiudiziale, detto adempimento dovrebbe compiersi all’atto di ricevere l’incarico professionale e non solo prima di autenticare la sottoscrizione della procura alla lite.

Alla luce di quanto sopra nonché di quanto si dirà immediatamente in appresso, si evince forse il reale significato della condizione di procedibilità introdotta dal Decreto Legislativo, che trascende le relative implicazioni in sede processuale. Verosimilmente il vero suo valore è semplicemente il portare le parti a contatto con la mediazione, sì da permettere loro di sperimentarla e trarne poi le debite conclusioni con cognizione di causa. In definitiva, quindi, il voler superare ad ogni costo la mediazione, senza mai tentare di trarne eventualmente vantaggio, ma considerandola sempre come un fastidioso incombente burocratico, va semplicemente a detrimento solo delle parti e di nessun altro.

Conclusioni

Il mediatore non è affatto in competizione con il magistrato o l’arbitro. L’attività del primo è fondata su presupposti (l’approccio sistemico al contenzioso) completamente antitetica a quella dei secondi. Pertanto tale mediatore vanifica se stesso, quando con presunzione e maldestrezza egli si atteggia da giudice, dimenticando che la propria funzione è invece l’aiutare le parti a definire il conflitto in via volontaria, favorendo il dialogo e la consapevolezza nei dovuti modi.

Mediatore e magistrato sono dunque complementari. L’uno interviene durante le trattative in sede extragiudiziaria, ove – nel campo dei diritti disponibili – regna sovrano l’interesse economico e relazionale delle parti in lite. L’altro (e solo egli) rende giustizia, applicando il diritto alle singole fattispecie mediante gli strumenti processuali predisposti dall’ordinamento giuridico cui appartiene.