Regolamento condominiale contrattuale

Qual’è il reale potere dei regolamento condominiale contrattuale?


Con la sentenza n. 16832, resa il 20 luglio 2009, la Cassazione è tornata a pronunciarsi in merito a come un regolamento condominiale  “contrattuale” può restringere o limitare le facoltà d’uso relative alle singole unità immobiliari in proprietà esclusiva, site all’interno del fabbricato ove esso vige.

Evidenziamo subito che per regolamento “contrattuale” si intende quello accettato dai singoli condòmini al momento dell’acquisto della loro porzione immobiliare: in buona sostanza, si tratta del regolamento debitamente richiamato all’interno del rogito notarile di compravendita.

Cosa che può avvenire con varie tecniche redazionali. In taluni casi, infatti, l’acquirente si obbliga a rispettare un determinato regolamento condominiale nonché a farlo rispettare ai propri futuri aventi causa (e cioè a coloro cui egli magari rivenderà in futuro la propria unità immobiliare).

In altri casi, invece, è l’immobile stesso ad essere direttamente acquistato con le caratteristiche ed i vincoli discendenti dal regolamento in questione. Questo secondo approccio corrisponde alle tecniche redazionali più moderne e serve essenzialmente a facilitare la trasmissione degli obblighi, discendenti dal regolamento condominiale, da un proprietario ai suoi aventi causa. I due sistemi sono comunque indifferenti con riferimento a quanto andremo a dire.

Caratteristica di fondo del regolamento “contrattuale” è dunque la sua accettazione in capo a tutti i condòmini: ciò spiega perché esso abbia il potere di imporre vincoli sulle facoltà di uso delle singole unità immobiliari in proprietà esclusiva.

Per contro, tale potere manca completamente al regolamento condominiale di natura “assembleare”, siccome esso può essere adottato a semplice maggioranza. Ovviamente, per quanto alta (a prescindere cioè dal quorum raggiunto), la maggioranza dei condomini  non potrà mai imporre alla minoranza dissenziente limitazioni di sorta all’uso che questi ultimi vogliano fare delle unità immobiliari in loro proprietà esclusiva.

In definitiva. Sia il regolamento “contrattuale” che quello “assembleare” hanno il potere di disciplinare le modalità d’uso delle cose di proprietà comune all’interno del condominio, fermi i limiti disposti dall’art.1138 c.c. (non si può cioè arrivare a privare un condòmino del diritto a godere di un bene comune).

Per contro, unicamente il regolamento “contrattuale” ha il potere di disporre vincoli circa l’uso delle porzioni in proprietà esclusiva ai singoli condomini: ciò per la ragione che sono gli stessi condòmini ad accettare volontariamente di sottostare ai vincoli stessi.

Chiarito quanto sopra, la citata Cassazione è tornata a ribadire un principio oltremodo consolidato, ma talora ignorato: siffatti vincoli, discendenti da un regolamento “contrattuale”, devono risultare in modo evidente ed esplicito nonché vanno interpretati in modo restrittivo. Ciò poiché si tratta di limiti suscettibili di pregiudicare – anche seriamente – il valore economico delle unità immobiliari in proprietà esclusiva: in quanto tali, la loro portata va esattamente percepita dai singoli condomini, quando si determinano ad accettarli al momento dell’acquisto del loro immobile.

Al riguardo, la Cassazione ha dunque testualmente ribadito: “le restrizioni alle facoltà inerenti alla proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio di natura contrattuale, devono essere formulate in modo espresso o comunque non equivoco in modo da non lasciare alcun margine d’incertezza sul contenuto e la portata delle relative disposizioni (Cass. n.23 del 07/01/2004). Trattandosi di materia che attiene alla compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze e non possono quindi dar luogo ad un’interpretazione estensiva delle relative norme. (Cass., sez. 2, n.9564 del 01/10/1997)”.

Lumi ulteriori vengono poi dalla disamina del caso concreto giudicato dalla Suprema Corte.

Nella fattispecie, il Tribunale di Roma aveva rigettato la domanda giudiziale, con cui un condominio intendeva inibire al proprietario di un negozio, sito nel medesimo fabbricato, di esercitare in tale locale l’attività di ristorazione con una trattoria, adducendo che ciò avrebbe rappresentato una violazione del regolamento condominiale di natura “contrattuale”.

Tale decisione era stata poi riformata dalla Corte d’Appello di Roma, la quale aveva diversamente interpretato l’invocata norma del regolamento condominiale. Per i giudici di secondo grado, l’inibitoria andava invece pronunciata, siccome il regolamento dello stabile poneva limiti all’uso ed al godimento sia dei beni comuni che delle proprietà esclusive, allo scopo di garantire le condizioni di tranquillità di tutti i partecipanti al condominio. Non solo. Il regolamento in questione indicava (“in via ovviamente esemplificativa“, a dire della Corte d’Appello) una serie di attività vietate e tra esse le destinazioni dei singoli beni ad uso diverso dell’abitazione e dell’ufficio professionale privato, se non debitamente consentito dall’assemblea. Inoltre, il regolamento medesimo proibiva espressamente di destinare i locati “… ad uso ufficio pubblico, sanatorio, gabinetto di cura.., pensione, locanda, albergo o in genere a qualsiasi altro uso che possa turbare la tranquillità dei condomini o sia contrario all’igiene o al decoro dell’edificio….”.

Ciò nonostante, la Suprema Corte ha censurato quanto deciso dalla Corte d’Appello di Roma, ritenendo che quest’ultima avesse errato nell’esegesi del regolamento condominiale sottoposto al suo giudizio. Nonostante l’apparente rigore del regolamento stesso, la Cassazione ha ritenuto che l’attività di mera ristorazione non fosse comunque inibita, siccome l’esercizio di una trattoria non era espressamente vietato: in effetti, il regolamento condominiale si limitava a proibire di destinare i locali a pensione, locanda o albergo, e cioè ad attività che contemplavano non la sola somministrazione di cibo agli avventori, ma anche quella di alloggio.

Né la Cassazione – e ciò pare alquanto rilevante – ha acconsentito di far discendere il divieto in questione da elementi meramente presuntivi: l’utilizzazione del locale a ristorante (nella fattispecie, si trattava di un locale con pochi posti a sedere) non è stata ritenuta un uso di per sé potenzialmente lesivo della tranquillità dei condomini ovvero contrario all’igiene o al decoro dell’edificio. Né agli atti esistevano prove specifiche al riguardo. Ciò ha dunque impedito di utilizzare le norme regolamentari, poste a tutela di tali interessi, per giustificare l’inibitoria chiesta dal condominio.