Catarsi dal conflitto

Senza perdono non c’è futuro” è un libro – sconvolgente e magnifico – scritto da Desmod Tutu (insignito del premio Nobel per la pace), in cui egli narra la propria esperienza come membro della Commissione di Riconciliazione sudafricana, istituita quale mezzo per cercare di sanare le terribili ferite lasciate durante l’odioso periodo dell’apartheid, quando entrambe le parti si macchiarono di terribili crimini.

Per superare il proprio triste passato, il Sudafrica scelse una strada diversa rispetto a quella seguita in Europa con il noto “processo di Norimberga”, promosso contro alcuni responsabili dei crimini perpetrati dai nazisti durante la II guerra mondiale (tale giurisdizione, peraltro, cessò abbastanza presto la propria attività, in quanto l’incombere della “guerra fredda” rese necessario alle potenze occidentali vittoriose coinvolgere la Germania occidentale nel fronte comune contro l’U.R.S.S., esigenza che sul piano real-politico volle la veloce chiusura di tale imbarazzante giurisdizione per il nuovo alleato).

L’approccio sudafricano è stato completamente diverso, poiché basato sulla convinzione che – per dare un futuro alla nazione – l’esigenza primaria era promuovere la riconciliazione, piuttosto che punire i colpevoli.

Affinché si potesse però sperare di creare i presupposti per una vera – quanto difficile – riconciliazione  non si poteva affatto concedere una semplice amnistia, poiché ciò avrebbe significato calpestare nuovamente le vittime delle orrende brutalità avvenute durante l’apartheid: ciò avrebbe gettato il seme di nuovo profondo odio.

La riconciliazione doveva allora fondarsi su ben altro: confessione e perdono.

Entrambe dovevano essere sentiti come “veri”, e cioè non come mere formalità.

Da questo libro emergono alcuni importanti principi, la cui validità – a prescindere dal credo religioso ovvero dai principi etici seguiti da ciascuno di noi – si estende anche ai casi in cui un qualsiasi tipo di conflitto (scaturente non solo dalla commissione di un crimine, ma anche da una lite famigliare ovvero in materia civile e commerciale) è oggetto di mediazione

Desmod Tutu conclude il proprio libro con queste considerazioni:

<<Nei rapporti tra persone, quando si chiede perdono si va incontro alla possibilità di essere respinti; la persona che è stata offesa può rifiutarsi di perdonare. Il rischio è ancora più grande quando è la parte offesa a voler perdonare.

L’offensore può essere arrogante, cieco, ostinato; può non essere disposto a scusarsi, e quindi ad accogliere il perdono che l ‘altro gli offre. Un simile rifiuto può mettere a repentaglio tutta l’impresa. In Sudafrica i nostri leader sono stati disposti a percorrere la strada della confessione, del perdono e della riconciliazione, con tutti i rischi conseguenti. E sembra che l’azzardo sia riuscito, dal momento che il nostro paese non è stato travolto dalla catastrofe che sembrava inevitabile.

Quando un rapporto è stato danneggiato, o quando un potenziale rapporto è stato reso impossibile, è fondamentale che i colpevoli riconoscano la verità e siano disposti a scusarsi.

E’ di grandissimo aiuto per il processo di riconciliazione.

Sappiamo che non è mai facile scusarsi, ammettere di avere sbagliato. Dire “mi dispiace” può essere la cosa più difficile del mondo, la più difficile da pronunciarsi in tutte le lingue. Quindi non fa meraviglia che le persone accusate di orrendi delitti, e le comunità da cui provengono e nell’ interesse delle quali esse credevano di agire, facciano quasi sempre il possibile per non ammettere di essere state capaci di compiere simili atrocità. Di fronte alla necessità di render conto scelgono la negazione, e quando le prove sono tali che diventa impossibile negare si rifugiano nell’ignoranza. I tedeschi pretendono di non avere saputo che cosa facevano i nazisti, e anche i sudafricani bianchi affermano di avere ignorato.

Leon Wessels, membro del Consiglio dei ministri durante l’apartheid, è più vicino alla verità quando dice che essi hanno voluto ignorare, benché ci fosse qualcuno che cercava di metterli in guardia. Chi aveva occhi per vedere doveva accorgersi della gente che moriva misteriosamente nelle mani della polizia. Chi aveva orecchie per udire sapeva che succedevano fatti non solo inquietanti ma addirittura agghiaccianti. Ma i bianchi, come le tre scimmiette, sceglievano di non udire, non vedere, non parlare. Quando qualche verità veniva a galla, erano pronti a dare la colpa a qualcun altro: “abbiamo eseguito degli ordini”, dicevano, senza prendere atto che ognuno di noi, come persona moralmente responsabile, ha il diritto di non obbedire a un ordine che va contro la propria coscienza.

In genere non muoriamo dalla voglia di sbandierare le nostre mancanze e di esporre la nostra vulnerabilità. Ma perché siano possibili il perdono e la guarigione, è indispensabile che vi sia un riconoscimento della colpa, e che sia il più possibile completo.

Riconoscere la verità, e riconoscere di avere fatto un torto a una persona, è importante per arrivare alla radice del problema. Se tra due coniugi avviene un litigio, e chi ha sbagliato non ammette difronte all’altro la propria colpa, mettendo quindi allo scoperto la causa del dissidio, – se un marito, per esempio, in una situazione come questa torna a casa con un mazzo di fiori, e la coppia fa finta che questo sistemi ogni cosa, entrambi si mettono nella condizione di andare incontro a brutte sorprese. Quei coniugi non hanno affrontato adeguatamente il proprio passato immediato: non sono andati a fondo della divergenza, hanno preferito non guardare in faccia la verità, per timore che il confronto potesse essere troppo aspro. Hanno fatto quello che il profeta chiama curare le ferite con le ciance, dicendo “Pace, pace”, mentre pace non c’era. Hanno coperto le crepe con una mano di vernice, senza cercare innanzi tutto di scoprire perché si erano create. Nonostante il bel mazzo di fiori la ferita continuerà inevitabilmente a suppurare, e un bel giorno ci sarà un’eruzione: ciò farà loro capire di aver cercato di ot tenere la riconciliazione troppo a buon mercato.

La vera riconciliazione non è a buon mercato. È costata a Dio la morte del Suo figlio unigenito. Perdonare e riconciliarsi non significa far finta che le cose siano diverse da quelle che sono. Non significa battersi reciprocamente la mano sulla spalla e chiudere gli occhi di fronte a quello che non va.

Una vera riconciliazione può avvenire soltanto mettendo allo scoperto i propri sentimenti: la meschinità, la violenza, il dolore, la degradazione. .. la verità. Talvolta le cose possono andare ancora peggio. È un’impresa pericolosa, ma alla fine ne vale la pena, perché solo affrontando la realtà si ottiene una vera guarigione. Una falsa riconciliazione può soltanto portare a una falsa guarigione. Se la persona che ha commesso il torto arriva al punto di rendersene conto, si spera che proverà rimorso, o almeno contrizione o dispiacere; allora potrà ammettere di aver sbagliato e riuscirà a chiedere perdono.

Questo naturalmente richiede una buona dose di umiltà, specie quando la vittima appartiene a un gruppo che la comunità del colpevole ha sempre disprezzato, com’era il caso, in Sudafrica, dei bianchi nei confronti dei neri. La vittima, si spera, sarà indotta da quel gesto a perdonare. Ho avuto modo di raccontare come spesso ci abbia stupito la magnanimità dimostrata da tante delle vittime. Ovviamente, talvolta è successo che qualcuno non abbia perdonato. Questo, a mio avviso, evidenzia un fatto importante: che il perdono non è una cosa facile, quindi non può essere dato per scontato. Ma anche se ci sono state delle eccezioni, il più delle volte la risposta ci ha profondamente toccati e ci ha messo nell’anima un senso di umiltà.

Quando si parla di perdono, non si intende che una persona debba dimenticare. Al contrario, è importante ricordare, per fare in modo che gli errori non si ripetano. Perdonare non significa condonare ciò che è stato fatto. Significa prendere sul serio l’accaduto, non minimizzarlo; significa estrarre dalla memoria la spina che minaccia di avvelenare l’intera esistenza. Per far questo bisogna mettersi nei panni dei colpevoli e cercare di capire quali pressioni e influenze possano averli condizionati. Il perdono non è un fatto sentimentale.

Oggi lo studio del perdono è un’industria in pieno sviluppo. Mentre un tempo lo si considerava, in senso restrittivo, come un’esperienza attinente alla sfera religiosa e spirituale, oggi, in virtù di iniziative come la Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica, sta ricevendo attenzione come disciplina accademica da parte di psicologi, filosofi, medici e teologi. Negli Stati Uniti esiste un Istituto internazionale per il perdono (International Forgiveness Institute) collegato all’Università del Wisconsin, e la John Templeton Foundation, assieme ad altri, ha indetto una Campagna per la ricerca sul perdono, con un budget di milioni di dollari.

Si è perfino scoperto che il perdono fa bene alla salute. Perdonare significa rinunciare al diritto di ripagare i colpevoli con la stessa moneta, ma si tratta di una perdita che libera la vittima. Nella Commissione abbiamo sentito persone esprimere un senso di sollievo dopo aver concesso il perdono. Un numero recente della rivista “Spirituality and Health” riporta in copertina la foto di tre ex militari statunitensi che guardano il Vietnam Memorial di Washington, e c’è un fumetto in cui uno dice: “Hai perdonato quelli che ti hanno tenuto prigioniero durante la guerra?”. “Non li perdonerò mai,” risponde l’altro. E il suo compagno commenta: “Allora, a quanto pare, ti tengono prigioniero anche ora…”.

Il pentimento e la confessione da parte del colpevole sono una condizione indispensabile perché la vittima possa perdonare? Non c’è dubbio che la confessione sia di grandissimo aiuto per colui che desidera perdonare, ma non è assolutamente indispensabile. Cristo non ha aspettato che quelli che lo inchiodavano alla croce chiedessero perdono: mentre ancora conficcavano i chiodi è stato capace di chiedere al Padre di perdonar li e li ha perfino giustificati per quello che facevano.

Se il perdono fosse subordinato alla confessione, la vittima verrebbe a dipendere dall’arbitrio del colpevole; potrebbe rimanere imprigionata nel ruolo di vittima a prescindere dal suo stato d’animo e dalla sua volontà. Questo sarebbe palesemente ingiusto.

Ciò non esclude che, per il colpevole, la confessione sia un atto estremamente necessario. Provate a immaginare di essere rinchiusi in una stanza buia, umida, soffocante, con le finestre chiuse e le tende tirate. Fuori splende la luce e soffia un fresco venticello. Se volete che l ‘aria e la luce entrino nella stanza dovrete aprire le finestre e scostare le tende.

Lo stesso vale per il perdono. Se la vittima è pronta a perdonare, tocca al colpevole aprirsi per ricevere il suo dono; se sarà disponibile a farlo, la luce e la brezza del perdono entreranno a rinfrescare il suo essere.

Concedendo il perdono, affermiamo la nostra fiducia nel futuro di una relazione, nella possibilità che la persona che ci ha offeso sia in grado di intraprendere un nuovo corso; in breve, affermiamo la nostra fede nella possibilità del cambiamento. Gesù dice che dovremmo essere pronti a far questo non una, non sette, ma settanta volte sette, vale a dire all’infinito, purché ogni volta, sembra dire Gesù, la persona che ha sbagliato sia disposta ad ammettere il proprio torto. È una cosa difficile; ma poiché non si amo infallibili, e poiché i nostri sbagli si esercitano soprattutto nei confronti delle persone che amiamo, ci sarà sempre bisogno di un processo di perdono e di riconciliazione per riparare le crepe che si producono nei rapporti: è un fatto inevitabile della condizione umana.

La confessione e il perdono non rappresentano la fine del processo. Non di rado, il torto si traduce in un danno materiale per la vittima. L’apartheid concedeva ai bianchi smisurati vantaggi, mentre teneva le sue vittime in una condizione di deprivazione e di sfruttamento. Se qualcuno mi ruba una penna, e poi mi chiede di perdonarlo, dovrà restituirmi la penna perché io creda alla sincerità della sua confessione e del suo pentimento. La confessione, il perdono e la riparazione, dove questa sia possibile, fanno par te di un unico processo>>.

E’ interessante notare che – in ben diverso contestoil Comitato  dei Ministri del Consiglio d’Europea così si esprime nel preambolo della propria raccomandazione 1999/9 sulla mediazione in materia penale: “Reconnaissant l’intérêt légitime des victimes à faire entendre davantage leur voix s’agissant des conséquences de leur victimisation, à communiquer avec le délinquant et à obtenir des excuses et une réparation“.