Autorizzazioni impianto vigneti 2019

Autorizzazioni impianto vigneti 2019:  pubblicata una nuova guida di AGEA (circolare AGEA  12599 del 14 febbraio 2019).


La guida (circolare AGEA n.12599 del  14 febbraio 2019) fa il punto sulla legislazione nazionale nonché sulle posizioni adottate dalle Regioni in merito ai criteri di priorità nell’assegnazione delle nuove Autorizzazioni impianto vigneti 2019.

Il quadro normativo italiano di riferimento resta quello portato dal D.M. 12272 del 15 dicembre 2015, come in ultimo modificato dal DM 935 del 13 febbraio 2018.

Il tutto in applicazione delle regole portate dalla OCM Unica (Regolamento UE 1308/2013, articoli 62 e seguenti, che a sua volta è stato oggetto di successive modificazioni).

La guida (Autorizzazioni impianto vigneti 2019) appare particolarmente interessante, poiché affronta il tema del trasferimento delle autorizzazioni fra Regioni, che è stato oggetto di apposita regolamentazione negli ultimi anni, al fine di evitare abusi, tali da depauperare il potenziale viticolo delle Regioni da cui “emigrano” le autorizzazioni.

Gia nelle premesse, la guida (Autorizzazioni impianto vigneti 2019)  richiama il parere della Commissione europea (ARES 2017-5680223), secondo cui:

“l’affitto di superfici vitate, al solo scopo di procedere alla loro immediata estirpazione ed al reimpianto in località differente e molto distante, non può essere considerato una normale attività agricola, sopratutto se la superficie vitata oggetto di estirpazione non è gestita dall’affittuario per un certo lasso di tempo e se il contratto di affitto è rescisso dopo l’estirpazione”.

Alla luce di ciò e delle disposizioni contenute nelle citate norme comunitarie ed italiane, AGEA conclude (pag.11):

” NON è consentita la modifica della regione di riferimento di autorizzazioni per reimpianto anticipato.

Al fine di contrastare fenomeni elusivi del principio della gratuità e non trasferibilità della titolarità delle autorizzazioni conseguenti ad atti di trasferimento temporaneo della conduzione, l’estirpazione dei vigneti effettuata prima dello scadere dei 6 anni dalla data di registrazione dell’atto di conduzione non dà origine ad autorizzazioni di reimpianto in una Regione differente da quella in cui è avvenuto l’estirpo. La presente disposizione non si applica agli atti di trasferimento temporaneo registrati prima dell’entrata in vigore del DM 935 del 13 febbraio 2018 (21 marzo 2018, data della registrazione alla Corte dei Conti ai sensi dell’art. 32 della legge n. 69/2009) e per i quali è stata già effettuata l’estirpazione del vigneto con contestuale comunicazione alla regione competente. Per tale finalità, nelle sole Regioni che hanno una procedura che prevede una “comunicazione di intenzione di estirpo” a cui segue – dopo verifica regionale – l’estirpo effettivo, la “comunicazione d’intenzione di estirpo”, o la data nel successivo Nulla Osta regionale se previsto, è da ritenersi equivalente all’estirpo effettivo.

Tale disposizione, per identità di ratio, è applicabile anche all’ipotesi di richiesta di trasferimento di una autorizzazione al reimpianto su terreni in conduzione (mediante atti di trasferimento temporaneo) da meno di 6 anni in una regione differente”.

Quest’ultimo requisito (necessità che il terreno nella Regione di “importazione” sia in locazione da almeno sei anni prima del trasferimento della autorizzazioni da usare su di esso) non trova però corrispondenza in una norma di legge, il che pare discutibile.

Sempre in tale ottica, AGEA aggiunge (pag.12):

“Al fine di contrastare fenomeni elusivi del criterio di distribuzione  proporzionale, anche neirambito dell’introduzione di criteri di priorità e del rispetto del miglioramento della competitività del settore nell’ambito delle singole Regioni, dal 2017 sono state introdotte le seguenti prescrizioni:

1) nelle domande di autorizzazione per nuovi impianti dovranno essere specificate la dimensione richiesta e la Regione nella quale si intende localizzare le superfìci oggetto di richiesta. Le autorizzazioni per nuovi impianti concesse dalla campagna 2017 e 2018, quindi, non sono più trasferibili da una regione ad un’altra, in quanto ciò contrasta con il criterio di ammissibilità.

2) Il vigneto impiantato a seguito del rilascio dell’autorizzazione è mantenuto per un numero minimo di 5 anni, fatti salvi i casi di forza maggiore e/o motivi fitosanitari. Per tale motivo, l’estirpazione dei vigneti impiantati con autorizzazioni di nuovo impianto prima dello scadere dei 5 anni dalla data di impianto non dà origine ad autorizzazioni di reimpianto“.

Quest’ultima restrizione vale anche se il trasferimento dovesse avvenire su fondi in altra Regione che siano di proprietà dell’azienda che procede all’espianto.

 

La guida (Autorizzazioni impianto vigneti 2019)  non menziona però la  circolare MIPAAF 5852 del 25/10/2016, mediante la quale il Ministero aveva anche  stabilito che:

“in caso di vendita,la vendita di una particella o azienda non autorizza il trasferimento delle autorizzazioni all’acquirente, anche se esse sono state rilasciate per particelle specifiche. Il trasferimento delle autorizzazioni in questo contesto è vietato al fine di evitare ogni forma di speculazione. Colui che vende conserva nel proprio portafoglio le autorizzazioni”.

Fermo quindi l’obbligo di mantenere i nuovi impianti per almeno 5 anni sul fondo ove il vigneto è stato messo a dimora, sussistono ulteriori elementi per ritenere che tale obbligo – sulla cui legitttimità già si dubitava, perlomeno nei casi in cui le autorizzazioni non siano state assegnate in base a criteri di priorità – non sia più in essere. Quanto meno, la situazione non è chiara.

 

Brexit tutela denominazioni Regno Unito

L’indebolimento della tutela di DOP e IGP nel Regno Unito nel caso di “Hard Brexit” (Brexit tutela denominazioni Regno Unito)


L’ipotesi – ormai sempre più concreta – che il Regno Unito esca dall’Unione Europea senza alcun accordo per regolare i successivi rapporti tra i due ordinamenti giuridici (la cosiddetta “Hard Brexit”), conseguente al rifiuto del Parlamento del Regno Unito a ratificare l’accordo di “divorzio” negoziato dal suo Primo Ministro (Theresa May) con la Commissione Europea, comporterà verosimilmente un grande caos, che colpirà un po’ tutti i settori economici (Brexit tutela denominazioni Regno Unito).

Ciò avverrà principalmente nel Regno Unito, ma le relative conseguenze potranno esplicare effetti più estesi, anche a carico di chi abbia sede ed operi nell’Unione Europea (come i produttori di alimenti e vini DOP e IGP italiani), ma necessiti di vedere tutelate anche nel Regno Unito “post-Brexit” situazioni che attualmente sono protette per effetto di norme comunitarie, attualmente ancora applicabili anche nel Paese d’oltre Manica.

Questo è (anche) il caso della protezione nel territorio del Regno Unito in favore delle denominazioni di origine ed indicazione geografiche relative agli Stati che resteranno nell’Unione. Ovviamente, ciò interessa soprattutto gli Stati che, mediante DOP e IGP, proteggono le loro eccellenze alimentari ed enoiche: dunque l’Italia.

Cerchiamo allora di capire il perché.

I nomi geografici, costituenti DOP ovvero IGP, sono protetti – quando ciò avviene, ma non è cosa scontata nel mondo! – per effetto di norme giuridiche, le quali esplicano però effetto unicamente sul territorio dell’ordinamento che le prevede. Va da sé che, più è ampio il territorio dell’ordinamento giuridico in questione, maggiore è l’estensione geografica delle zone ove vige siffatta tutela.

In buone sostanza, i confini nazionali rappresentano un grave ostacolo alla tutela in questione.

In Europa, tale problema è stato risolto – con notevole efficacia! – proprio grazie alle norme comunitarie: facendo discendere da esse la protezione di DOP e IGP, i confini nazionali all’interno dell’Unione non ledono minimamente la loro tutela. In altre parole, in virtù del diritto comunitario, una denominazione italiana è protetta nello stesso modo tanto in Italia, quanto in Francia, quanto in Germania, e così via in tutti gli altri Paesi dell’Unione.

La protezione, peraltro, è molto estesa, siccome essa vieta (art.103 del Regolamento 1308/2013/UE) – fra l’altro – di ledere le DOP e le IGP con «qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto o servizio è indicata o se il nome protetto è una traduzione, una trascrizione o una traslitterazione o è accompagnato da espressioni quali “genere”, “tipo”, “metodo”, “alla maniera”, “imitazione”, “gusto”, “come” o espressioni simili».

Superando i confini dell’Unione Europea, ciò viene meno.

L’unica possibilità, per mantenere una certa tutela, è che anche gli Stati non facenti parte dell’Unione riconoscano sul loro territorio una qualche protezione a DOP e IGP comunitarie.

E’ vero che gli Accordi TRIPS, conclusi in sede dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, comportano l’obbligo per tutti gli Stati aderenti di proteggere le denominazioni di origine (ma non le indicazioni geografiche!), ma è parimenti vero che detti accordi sono poco efficaci. Al punto che negli ultimi venti anni l’Unione Europea ha concluso una rete di appositi accordi internazionali con molti altri Stati – fra cui: U.S.A, Canada, Sud Africa, Cile, Australia, Giappone, … manca però la Cina) – per vedere protette sul loro territorio le nostre DOP e IGP.

Per stringere simili accordi, peraltro, è necessario disporre di molto potere negoziale: forza che l’Italia – da sola – ha in misura molto limitata.

In buona sostanza: è grazie all’Unione Europea che le nostre DOP e IGP vengono protette in buona parte del mondo con una certa effettività.

Ecco allora il nocciolo della questione: venendo meno l’applicazione del diritto comunitario nel Regno Unito, per effetto della sua uscita dall’Unione, per tutelare del sole DOP europee su tale territorio – in caso di “Hard Brexit” – saranno invocabili unicamente gli Accordi TRIPS, dall’efficacia però molto limitata.

Il problema nemmeno è superabile per effetto dell’Accordo di Lisbona concluso in sede WIPO (World Intellectual Property Organization), poiché ad esso attualmente non aderisce il Regno Unito. Oltre al fatto che tale accordo estende sì la tutela a denominazioni ed indicazioni, ma – con riferimento a queste ultime – contiene una definizione più rigorosa rispetto a quella accolta dalla legislazione comunitaria.

Insomma: oltre a non essere certo se nel Regno Unito verranno allora protetti tutti i nomi geografici attualmente costituenti denominazioni di origine europee (escluse quindi le IGP), pure dubbia sarà l’estensione dell’eventuale protezione loro accordata: quest’ultima, infatti, potrebbe risultare molto più limitata rispetto a quella riconosciuta loro dal diritto comunitario e – forse – molto più costoso ottenerla in sede giudiziaria (Brexit tutela denominazioni Regno Unito).

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Brexit tutela denominazioni Regno Unito

Brexit tutela denominazioni Regno Unito

Decreto consorzi tutela vini DOC DOCG IGT

ll decreto ministeriale 18/7/2018 regola la costituzione e la gestione dei consorzi tuela vini a denominazione ed indicazione geografica, dando così attuazione al Testo Unico Vino.


DECRETO MINISTERIALE 18 luglio 2018.

Disposizioni generali in materia di costituzione e riconoscimento dei consorzi di tutela per le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche dei vini (decreto consorzi tutela vini).

  • pubblicato nella Gazz. Uff. 5 ottobre 2018, n. 232.
  • emanato dal Ministero delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo.

 

IL MINISTRO DELLE POLITICHE AGRICOLE

ALIMENTARI, FORESTALI E DEL TURISMO

Visto il regolamento (UE) n. 1308/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 dicembre 2013 recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli e che abroga i regolamenti (CEE) n. 922/72, (CEE) n. 234/79, (CE) n. 1037/2001 e (CE) n. 1234/2007 del Consiglio;

Visto il regolamento (CE) n. 607/2009 della commissione del 14 luglio 2009 recante modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 479/2008 del Consiglio per quanto riguarda le denominazioni di origine protette e le indicazioni geografiche protette, le menzioni tradizionali, l’etichettatura e la presentazione di determinati prodotti vitivinicoli;

Vista la legge 12 dicembre 2016, n. 238, recante disciplina organica della coltivazione della vite e della produzione e del commercio del vino (di seguito denominata «Legge»);

Visto l’art. 41 della Legge, concernente disposizioni generali sui consorzi di tutela per le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche protette;

Visto in particolare l’art. 41, comma 4, lettere a) e b) il quale prevede la possibilità per il consorzio di tutela di contribuire a migliorare il coordinamento dell’immissione sul mercato della denominazione tutelata, la definizione di piani di miglioramento della qualità del prodotto nonché di organizzare e coordinare le attività delle categorie interessate alla produzione ed alla commercializzazione della denominazione tutelata;

Visto inoltre l’art. 41, comma 5 il quale dispone che il consorzio di tutela svolge l’attività di vigilanza, prevalentemente nella fase del commercio, sotto il coordinamento dell’ICQRF ed in raccordo con le regioni, avvalendosi, per lo svolgimento di tale attività, di agenti vigilatori ai quali è attribuita la qualifica di pubblica sicurezza;

Visto altresì il comma 7 del citato art. 41 che prevede l’individuazione delle procedure e delle modalità in base alle quali il consorzio di tutela riconosciuto garantisce una corretta e trasparente informazione sulle funzioni svolte ai sensi dell’art. 41, comma 4, a tutti i soggetti inseriti nel sistema di controllo della denominazione tutelata;

Visto inoltre il comma 8 del citato art. 41 il quale prevede la determinazione dei criteri e delle modalità per richiedere, da parte del consorzio di tutela riconosciuto ad esercitare le funzioni di cui all’art. 41, comma 4, ai nuovi soggetti utilizzatori della denominazione tutelata al momento della loro immissione al sistema di controllo, il contributo di avviamento di cui al decreto-legge 23 ottobre 2008, n. 162, convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2008, n. 201;

Visto l’art. 41, comma 12, il quale prevede l’emanazione di un decreto nel quale siano stabilite le condizioni per consentire ai consorzi di svolgere le attività di promozione, valorizzazione tutela, vigilanza, informazione del consumatore e cura generale degli interessi relativi alla denominazione dei consorzi di tutela delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche dei vini per i quali risultano incaricati;

Visto altresì l’art. 41, comma 12, ultimo periodo della Legge, il quale dispone che siano individuate le cause di incompatibilità degli organi amministrativi dei consorzi di tutela, comprese altresì le cause di incompatibilità relative agli incarichi dirigenziali svolti presso i consorzi di tutela;

Visto l’art. 39 della Legge che prevede la possibilità per i consorzi di tutela, in particolari annate climatiche, di formulare alle regioni proposte relative all’attuazione della gestione delle produzioni;

Visto l’art. 44 della Legge ed in particolare il comma 9, il quale prevede che il consorzio di tutela rappresentativo ai sensi dell’art. 41, comma 4 rilascia l’autorizzazione all’utilizzo del riferimento ad una DOP o IGP tutelata, nell’etichettatura, nella presentazione o nella pubblicità di prodotti composti, elaborati o trasformati;

Visto l’art. 82 della Legge che stabilisce che siano comminate sanzioni nei confronti del consorzio di tutela autorizzato che non ottemperi alle prescrizioni ed agli obblighi che derivano dal decreto di riconoscimento;

Visti l’art. 90 della Legge ed in particolare il comma 3 il quale prevede l’applicazione, fino all’emanazione dei decreti applicativi della legge, delle disposizioni dei decreti attuativi emanati ai sensi della preesistente normativa nazionale e dell’Unione europea che non siano in contrasto con le materie disciplinate dalla legge e dalla normativa europea;

Visto l’art. 91 della Legge che disciplina, in particolare, al comma 1, lettera c) l’abrogazione del decreto legislativo 8 aprile 2010, n. 61;

Considerato che l’art. 41 della Legge non disciplina il riconoscimento dei consorzi di tutela delle sottozone dei vini DOP e ritenuto, tuttavia, opportuno prevedere un periodo transitorio di un anno per consentire la cessazione degli incarichi conferiti ai consorzi predetti, ai sensi dell’art. 17 del decreto legislativo citato;

Considerato che la vigilanza sui consorzi di tutela dei vini è esercitata dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali ai sensi del decreto dipartimentale n. 7422 del 12 maggio 2010 recante disposizioni generali in materia di verifica delle attività attribuite ai consorzi di tutela;

Ritenuto opportuno disciplinare compiutamente le modalità di riconoscimento e conferimento dell’incarico a svolgere le funzioni di tutela, promozione, valorizzazione, informazione del consumatore e cura generale degli interessi relativi alla denominazione dei consorzi di tutela delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche dei vini;

Ritenuto inoltre necessario disciplinare l’attività di vigilanza svolta dal consorzio di tutela ai sensi dell’art. 41, comma 1, lettera e) e comma 4, lettera e) della Legge da espletare prevalentemente nella fase di mercato nonché disciplinare le modalità di rilascio delle autorizzazioni di cui all’art. 44;

Ritenuto altresì opportuno disciplinare le modalità per i soggetti inseriti nel sistema di controllo della denominazione per accedere alle informazioni relative ai costi sostenuti dal consorzio incaricato a svolgere le funzioni di cui all’art. 41, comma 4 della Legge, secondo criteri di trasparenza e chiarezza nonché di stabilire le disposizioni in base alle quali richiedere il contributo di avviamento ai nuovi soggetti utilizzatori della denominazione al momento della loro immissione al sistema di controllo della denominazione stessa;

Ritenuto necessario, inoltre, disciplinare le modalità per approvare le proposte dei consorzi di tutela, avanzate alle regioni ai sensi dell’art. 39 della Legge;

Visto il parere favorevole della conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano reso nella seduta del 19 aprile 2018;

Decreta:

Art. 1. Definizioni

Ai fini del presente decreto si intendono:

a) Legge: la legge 12 dicembre 2016, n. 238 recante la disciplina organica della coltivazione della vite e della produzione e del commercio del vino;
b) Decreto legislativo: il decreto legislativo 8 aprile 2010, n. 61 recante la tutela delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche dei vini, in attuazione dell’art. 15 della legge 7 luglio 2009, n. 88;
c) Decreto dipartimentale: il decreto dipartimentale 12 maggio 2010, n. 7422 recante le disposizioni generali in materia di verifica delle attività attribuite ai consorzi di tutela;
d) DIQPAI: il Dipartimento delle politiche competitive della qualità agroalimentare e dell’ippica del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali – Direzione generale per la promozione della qualità agroalimentare e dell’ippica – ufficio PQAI IV;
e) ICQRF: il Dipartimento dell’ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari;
f) PREF: la Direzione generale della prevenzione e del contrasto alle frodi agro-alimentari dell’ICQRF;
g) VICO: la Direzione generale per il riconoscimento degli organismi di controllo e di certificazione e tutela del consumatore dell’ICQRF;
h) Piano: lo strumento adottato dai consorzi in applicazione dell’art. 41, comma 4, lettera b), della legge, al fine di regolare l’offerta allo scopo di migliorare e stabilizzare il funzionamento del mercato comune dei vini, comprese le uve, i mosti e vini da cui sono ottenuti.

Art. 2. Disposizioni generali

1. I consorzi di tutela delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche dei vini sono costituiti ai sensi dell’art. 2602 e ss. del codice civile fra i soggetti viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori della denominazione sottoposti al sistema di controllo di cui all’art. 64 della Legge.

2. Il consorzio di tutela, riconosciuto ed incaricato con decreto del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, svolge le funzioni di cui all’art. 41, comma 1 della Legge, ovvero, qualora dimostri la rappresentatività nella compagine sociale del consorzio di almeno il 40 per cento dei viticoltori e di almeno il 66 per cento della produzione di competenza dei vigneti dichiarati a DOP o IGP, calcolata sulla base del quantitativo rivendicato e/o certificato, negli ultimi due anni, inteso come media, salva deroga ad un anno nel caso di passaggio di DOC a DOCG e da IGT a DOC, può svolgere anche le funzioni di cui all’art. 41, comma 4.

3. Le percentuali di rappresentanza relative alla produzione di competenza dei vigneti iscritti nello schedario viticolo indicate al precedente comma sono determinate considerando la produzione oggetto di lavorazione di una qualsiasi fase della filiera (viticoltura, vinificazione ed imbottigliamento), fatto salvo il divieto di considerare più di una volta il prodotto originato dalle uve ottenute dai medesimi vigneti iscritti.

4. Il 66% della produzione di cui al precedente comma 2 deve essere composto per almeno il 33% da prodotto certificato ed imbottigliato.

Art. 3. Statuto

1. Il consorzio di tutela che intende ottenere il riconoscimento ministeriale trasmette al Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali lo statuto che deve contenere, ai fini dell’approvazione, fatte salve le previsioni del codice civile:

a) il nome della denominazione per la quale il consorzio opera;
b) le modalità per l’ammissione al consorzio, garantendo espressamente l’accesso, senza discriminazione, in maniera singola o associata, esclusivamente ai viticoltori, ai vinificatori ed agli imbottigliatori sottoposti al sistema di controllo di cui all’art. 64 della Legge, della DO o della IG tutelata;
c) gli obblighi degli associati, le modalità per la loro esclusione e/o l’esercizio della facoltà di recesso, che deve essere sempre consentita;
d) l’individuazione e le funzioni degli organi sociali (Assemblea, Consiglio di amministrazione, Presidente, Organo di controllo);
e) norme per la nomina dell’organo di controllo che, se costituito in forma collegiale deve prevedere che almeno un membro effettivo ed uno supplente siano scelti tra gli iscritti nel registro dei revisori contabili; se costituito in forma monocratica, deve prevedere che il sindaco unico sia scelto tra i revisori legali iscritti nell’apposito registro;
f) modalità di nomina dei componenti degli organi sociali secondo i criteri di rappresentanza fissati dall’art. 41 della Legge e dal presente decreto nonché le norme di funzionamento degli organi medesimi;
g) norme relative alle modalità di voto e rappresentanza delle diverse categorie della filiera all’interno del consorzio;
h) norme che garantiscano l’autonomia decisionale in tutte le istanze consortili, nel caso in cui il consorzio operi per più DO ed IG;
i) norme per il componimento amichevole nella forma dell’arbitrato – anche irrituale – delle eventuali controversie che dovessero insorgere tra i soci ovvero tra i soci e il consorzio e tutte le controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci, ovvero nei loro confronti, o che abbiano per oggetto la validità di delibere assembleari.

 

Art. 4. Rappresentanza all’interno del consorzio di tutela per lo svolgimento delle funzioni i cui all’art. 41, comma 1 della Legge

1. Per ottenere il riconoscimento ministeriale e poter quindi perseguire le finalità di cui all’art. 41, comma 1, lettere da a) ad e), il consorzio di tutela deve essere rappresentativo di almeno il 35 per cento dei viticoltori e di almeno il 51 per cento, per cento della produzione di competenza dei vigneti dichiarati a DOP o IGP, calcolata sulla base del quantitativo rivendicato e/o certificato, negli ultimi due anni, inteso come media, salva deroga ad un anno nel caso di passaggio di DOC a DOCG e da IGT a DOC.

2. Il 51% della produzione di cui al precedente comma 1 deve essere composto per almeno il 25% da prodotto certificato ed imbottigliato.

3. Nel caso in cui il riconoscimento sia richiesto da un consorzio di tutela per più denominazioni, così come previsto dall’art. 41, comma 2 della Legge, la percentuale di rappresentanza, così come individuata al precedente comma 1, deve sussistere per ciascuna denominazione protetta per la quale il consorzio di tutela è incaricato.

Art. 5. Rappresentanza all’interno del consorzio di tutela per lo svolgimento delle funzioni di cui all’art. 41, comma 4 della Legge

1. Il consorzio di tutela riconosciuto ai sensi del precedente art. 4 ed incaricato con decreto ministeriale a svolgere le funzioni di cui all’art. 41, comma 1 della Legge, che intende esercitare nell’interesse della DO o IG per il quale risulta incaricato e nei confronti di tutti i soggetti viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori sottoposti al sistema di controllo di cui all’art. 64 della legge della DO o della IG, anche non aderenti, le funzioni di cui all’art. 41, comma 4, è tenuto a dimostrare la rappresentatività nella compagine sociale di almeno il 40 per cento dei viticoltori e di almeno il 66 per cento, inteso come media, della produzione rivendicata e/o certificata, di competenza dei vigneti dichiarati a DO o IG negli ultimi due anni, salva deroga ad un anno nel caso di passaggio di DOC a DOCG e da IGT a DOC.

2. Nel caso in cui le funzioni di cui all’art. 41, comma 4 della legge siano esercitate da un consorzio di tutela per più denominazioni, così come previsto dall’art. 41, comma 2 della citata Legge, la percentuale di rappresentanza, così come individuata al precedente comma 1, deve sussistere per ciascuna denominazione protetta per la quale il consorzio è incaricato.

Art. 6. Gestione delle attività dei consorzi di tutela

1. Le attività di cui all’art. 41, comma 4 della Legge, sono svolte dal consorzio di tutela incaricato nel rispetto dei principi e delle modalità di seguito indicati.

2. Ai sensi di quanto previsto dall’art. 39, comma 1 e comma 2, della Legge, al fine di salvaguardare e tutelare la qualità del prodotto a DO o IG e contribuire ad un migliore coordinamento dell’immissione sul mercato della DO o IG tutelata, il consorzio di tutela formula alle regioni proposte relative all’attuazione della gestione delle produzioni, fatto salvo quanto già eventualmente disciplinato dalle regioni in conformità alla Legge.

3. Le proposte avanzate dal consorzio di tutela, ai sensi del precedente comma 2, devono essere adottate in sede di assemblea ordinaria, dopo aver dato ampia diffusione della citata proposta agli utilizzatori inseriti nel sistema di controllo della denominazione.

4. La regione, su proposta del consorzio di tutela adottata ai sensi del precedente comma 3 ed acquisito il parere delle organizzazioni rappresentative della filiera regionale, fissa con provvedimento regionale gli strumenti di gestione delle produzioni di cui all’art. 39 della Legge. Il provvedimento regionale deve essere adottato entro trenta giorni dal ricevimento della proposta, in coerenza con gli obiettivi proposti con l’intervento del consorzio di tutela e comunque, ad eccezione della riduzione della resa massima di vino classificabile come DO, prima dell’inizio della campagna vendemmiale.

5. Il consorzio di tutela al fine di organizzare e coordinare le attività delle categorie della filiera interessate alla produzione ed alla commercializzazione della denominazione tutelata può adottare e presentare un «Piano» nel rispetto dei principi di cui all’art. 167 del regolamento (UE) n. 1308/2013 e di quanto disposto dai successivi commi 6 e 7 del presente articolo. Il Piano non può in alcun caso riguardare la fissazione dei prezzi.

6. La proposta di Piano di cui al precedente comma, elaborata previa consultazione dei rappresentanti di categoria della denominazione interessata, e dopo ampia diffusione agli utilizzatori inseriti nel sistema di controllo della denominazione, può essere presentata dal consorzio di tutela soltanto ove approvata in sede di assemblea da almeno l’85 per cento dei soci iscritti al consorzio di tutela e da almeno il 51 per cento dei soggetti viticoltori che rappresentano almeno il 66 per cento della produzione sottoposti al sistema di controllo di cui all’art. 64 della legge della DO o della IG, intesi come media negli ultimi due anni. Le modalità di voto sono quelle di cui all’art. 8. La proposta di Piano è presentata dal consorzio al Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali – DIQPAI e contestualmente inviata per conoscenza alle regioni nel cui territorio ricade la DO o IG oggetto del Piano.

7. Il DIQPAI decide sulla proposta di Piano entro tre mesi dalla presentazione della proposta. In mancanza di una decisione espressa la proposta di Piano si intende rigettata. Il Piano di produzione approvato dal DIQPAI è vincolante per tutti i soggetti viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori sottoposti al sistema di controllo di cui all’art. 64 della legge della DO o della IG tutelata dal consorzio di tutela, anche non aderenti. Il provvedimento è pubblicato sul sito Internet del Ministero e notificato alla commissione europea, ai sensi del regolamento (UE) n. 1308/2013. Il Piano ha una durata di tre anni dalla data di pubblicazione, salva la sua revisione nel triennio con il medesimo procedimento di approvazione ove intervengano modifiche nei presupposti o nelle prospettive di mercato. Alla scadenza del Piano il consorzio di tutela può presentare una nuova proposta di Piano.

8. La denominazione è tutelata ai sensi dell’art. 103 del Regolamento (UE) n. 1308/2013 e dell’art. 90, par. 1, del Regolamento (UE) n. 1306/2013 ed il consorzio di tutela incaricato, ai sensi dell’art. 41 della Legge, può esercitare e promuovere ogni azione avanti a qualsiasi organo e qualsiasi giurisdizione, sia nazionale che internazionale, per la tutela e la salvaguardia della denominazione.

Art. 7. Attività di vigilanza dei consorzi di tutela

1. L’attività di vigilanza, di cui all’art. 41, comma 1, lettera e) e comma 4, lettera e) della Legge, è svolta dal consorzio di tutela in collaborazione e sotto il coordinamento dell’ICQRF, prevalentemente nella fase del commercio, attraverso la definizione di un programma di vigilanza, che ha durata triennale, salvo modifiche.

2. L’attività di vigilanza di cui al precedente comma 1 consiste nelle seguenti azioni:

a. nella verifica che le produzioni tutelate rispondano ai requisiti previsti dai disciplinari di produzione. Tali attività di verifica sono espletate solo successivamente all’avvenuta certificazione;
b. nella vigilanza operata sui prodotti similari, prodotti e/o commercializzati sul territorio dell’Unione europea che, con false indicazioni sull’origine, la specie, la natura e le qualità specifiche dei prodotti medesimi, possano ingenerare confusione nei consumatori e recare danno alle produzioni DO e IG.
c. per il consorzio di tutela riconosciuto ai sensi dell’art. 41, comma 4, nella vigilanza sull’utilizzo del riferimento ad una DO o IG nell’etichettatura, nella presentazione o nella pubblicità di un prodotto composto, elaborato o trasformato, da parte dei soggetti che ha autorizzato ai sensi dell’art. 44 della Legge.

 

3. Il consorzio di tutela in nessun modo può effettuare verifiche sull’attività svolta dagli organismi di controllo né può svolgere attività di autocontrollo sulle produzioni.

4. Il coordinamento delle attività di cui al precedente comma 2 è affidato all’ufficio territoriale dell’ICQRF territorialmente competente per ogni singola DO o IG.

5. Nell’ipotesi in cui l’area di produzione della DO o IG ricada su un territorio di competenza di più uffici territoriali dell’ICQRF, l’ufficio competente al coordinamento dell’attività di vigilanza di cui al precedente comma 1 è quello competente per il territorio ove il consorzio di tutela ha la sede legale.

6. Il programma di vigilanza da effettuarsi sulle singole DO o IG di cui al precedente comma 1, elaborato dall’ufficio territoriale dell’ICQRF territorialmente competente e dal consorzio di tutela, deve contenere i seguenti elementi:

a. modalità e numero delle visite ispettive da effettuare;
b. numero dei campioni da prelevare;
c. vigilanza da espletare sulle produzioni similari;
d. individuazione laboratori accreditati ove effettuare le analisi dei campioni prelevati, preventivamente anonimizzati;
e. modalità di rendicontazione.

 

7. Il programma di vigilanza è predisposto secondo le linee guida impartite dall’ICQRF sulla base delle indicazioni di cui al comma 6 ed è trasmesso a cura dell’ufficio territoriale alla PREF che, previa approvazione da parte della stessa PREF, provvederà ad inviarlo per opportuna conoscenza alla regione o provincia autonoma interessata per territorio e al DIQPAI.

8. Il consorzio di tutela elabora un rendiconto dell’attività svolta nell’anno precedente, secondo le linee guida di cui al comma 6 e lo trasmette entro il mese di marzo dell’anno successivo, al competente ufficio territoriale dell’ICQRF, che lo invia alla PREF e per conoscenza alla regione o provincia autonoma interessata per territorio. Il rendiconto viene trasmesso dal consorzio di tutela al DIQPAI nell’ambito della relazione di cui al decreto dipartimentale e successive integrazioni e modifiche.

9. Il consorzio di tutela informa tempestivamente il competente ufficio territoriale dell’ICQRF in merito alle operazioni non pianificate a norma del precedente comma, nonché sulle segnalazioni ricevute in ordine ad eventuali violazioni concernenti la tutela e la salvaguardia delle produzioni dei vini DO e IG.

10. Qualora dalla vigilanza sulla commercializzazione dovesse emergere l’esigenza di effettuare verifiche nelle fasi di produzione, vinificazione e confezionamento, il consorzio di tutela è tenuto ad informare il competente ufficio territoriale dell’ICQRF. Nell’organizzazione della conseguente attività di vigilanza della denominazione, il direttore dell’ufficio territoriale competente – sempre nel rispetto di quanto previsto dal precedente comma 3 – può avvalersi anche degli agenti vigilatori del consorzio di tutela.

11. Le attività di cui all’art. 41, comma 1 lettera e) e comma 4 lettera e) della legge sono svolte dagli agenti vigilatori del consorzio di tutela dei vini DO ed IG ai quali è attribuita nei modi e nelle forme di legge la qualifica di agente di pubblica sicurezza.

12. Il rilascio della tessera di riconoscimento della qualifica di agente vigilatore è di competenza del DIQPAI.

13. I campioni prelevati dagli agenti vigilatori di cui al precedente comma 12 vengono analizzati dai laboratori individuati ai sensi del comma 6, lettera d) del presente articolo. Il proprietario della partita oggetto di prelevamento può chiedere il pagamento del campione al prezzo di acquisto.

14. Il costo delle analisi dei campioni, prelevati dal consorzio di tutela nell’ambito della loro collaborazione all’attività di vigilanza, grava sui bilanci del medesimo consorzio.

15. Gli agenti vigilatori del consorzio di tutela, aventi qualifica di agente di pubblica sicurezza, qualora nel corso dell’attività di vigilanza accertino:

a. illeciti di natura penale, redigono l’informativa della notizia di reato e l’inoltrano all’autorità giudiziaria competente, trasmettendone copia, previa autorizzazione della medesima autorità, al direttore dell’ufficio territoriale dell’ICQRF competente per territorio;
b. gli illeciti amministrativi di cui all’art. 74 della Legge, provvedono ai sensi dell’art. 41 comma 6 della legge a contestarli e notificarli al trasgressore nei tempi e nei modi previsti dalla legge 24 novembre 1981 n. 689. Inoltre, i medesimi agenti vigilatori provvedono a presentare il rapporto, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 689 del 1981, con la prova delle avvenute contestazioni e notificazioni, all’ufficio dell’ICQRF competente per territorio.

16. L’attuazione delle disposizioni dell’articolo grava sulle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e comunque senza nuovi o maggiori oneri sulla finanza pubblica.

Art. 8. Modalità di voto

1. Lo statuto del consorzio di tutela deve assicurare a ciascun consorziato avente diritto ed appartenente alle categorie viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori l’espressione del voto.

2. A ciascun consorziato avente diritto (appartenente alle categorie dei viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori) deve essere assicurata l’espressione di un voto con valore ponderale rapportato alla quantità di prodotto ottenuto nella campagna vendemmiale immediatamente precedente la data dell’assemblea (rispettivamente uva denunciata, vino denunciato, vino imbottigliato). La ponderazione può essere determinata anche mediante l’applicazione di fasce o scaglioni produttivi.

3. Qualora il consorziato svolga contemporaneamente due o tre attività produttive, il voto è cumulativo delle attività svolte.

4. Nel caso in cui il consorzio di tutela sia riconosciuto per più denominazioni, il valore del voto è determinato dalla somma dei singoli valori di voto allo stesso consorziato spettanti per ciascuna DO o IG.

5. L’adesione in forma associativa dei soggetti viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori della denominazione a tutela della quale opera il consorzio, ai fini della manifestazione del voto e a condizione della espressa delega dei singoli, consente l’utilizzo cumulativo delle singole quote di voto.

Art. 9. Ripartizione dei costi relativi alle funzioni di cui all’art. 41, comma 1 della Legge

1. I costi derivanti dall’esercizio delle funzioni di cui all’art. 41, comma 1 sono ripartiti esclusivamente tra i soci del consorzio di tutela.

2. La quota da porre a carico di ciascuna categoria della filiera (viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori) è stabilita dal consorzio di tutela e commisurata alla quantità di prodotto DO o IG (uva, vino denunciato, vino imbottigliato) sottoposto al sistema di controllo nella campagna vendemmiale immediatamente precedente l’anno nel quale vengono attribuiti i costi.

3. La commisurazione della quota di cui al precedente comma 2 può essere determinata anche mediante l’applicazione di fasce o scaglioni produttivi.

Art. 10. Ripartizione dei costi relativi alle funzioni di cui all’art. 41, comma 4 della Legge

1. I costi derivanti dall’esercizio delle funzioni di cui all’art. 41, comma 4 della Legge sono determinati dal consorzio di tutela e sono posti a carico di tutti i soci del consorzio di tutela e di tutti i soggetti viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori della denominazione sottoposti al sistema di controllo di cui all’art. 64 della Legge, anche se non aderenti al consorzio di tutela.

2. I contributi di cui al precedente comma 1 sono costituiti da tariffe applicabili a ciascun socio e agli altri soggetti imponibili viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori sulla base della quantità di prodotto DO o IG (uva, vino denunciato, vino imbottigliato) sottoposto al sistema di controllo nella campagna vendemmiale immediatamente precedente l’anno nel quale vengono attribuiti i costi.

3. La commisurazione dei contributi di cui al precedente comma 2 può essere determinata anche mediante l’applicazione di fasce o scaglioni produttivi.

4. I contributi di cui al presente articolo devono essere riportati in bilancio in conti separati.

Art. 11. Contributo di avviamento di cui all’art. 41, comma 8 della Legge

1. Il consorzio di tutela che svolge le funzioni di cui all’art. 41, comma 4 della Legge, può richiedere ai nuovi soggetti utilizzatori della denominazione al momento dell’immissione nel sistema di controllo, di cui all’art. 64 della Legge, il contributo di avviamento di cui al decreto-legge 23 ottobre 2008, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2008, n. 201.

2. La quota del contributo di avviamento indicata al precedente comma 1, è determinata con delibera del Consiglio di amministrazione ed è stabilita in misura fissa, e non superiore al contributo determinato ai sensi dell’art. 10, comma 2.

3. L’entità della quota determinata può essere diversificata per le diverse denominazioni tutelate dal consorzio di tutela e per le categorie della filiera (viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori).

4. Qualora un nuovo soggetto utilizzatore sia immesso nel sistema di controllo per più di una fra le denominazioni tutelate dal consorzio di tutela, è tenuto, al pagamento del contributo di avviamento, laddove richiesto dal consorzio di tutela, come individuato al precedente comma 2, per tutte le denominazioni tutelate dal consorzio di tutela, per le quali richiede l’immissione.

5. Qualora un nuovo soggetto utilizzatore sia immesso nel sistema di controllo per più di una fra le categorie della filiera della denominazione tutelata, è tenuto al pagamento del contributo di avviamento, laddove richiesto dal consorzio di tutela come individuato al precedente comma 2, per tutte le categorie della filiera per cui richiede di essere immesso.

6. Il soggetto utilizzatore che ha provveduto al pagamento del contributo di avviamento di cui al presente articolo, è esonerato dal pagamento al consorzio di tutela del contributo previsto all’art. 10, per il primo anno in cui è richiesto.

7. Il contributo di avviamento richiesto dal consorzio di tutela è destinato all’esercizio delle funzioni di cui all’art. 41, comma 4 della Legge.

8. Il contributo di cui al presente articolo deve essere riportato in bilancio in conti separati.

Art. 12. Fondo consortile

1. Ciascun consorziato ha l’obbligo di contribuire alla formazione del Fondo consortile che è costituito da quote il cui valore sarà determinato dall’assemblea del consorzio di tutela. Il fondo patrimoniale netto di bilancio è determinato, alla fine di ogni esercizio, dalla somma algebrica:

a. del fondo inizialmente conferito in sede di costituzione del consorzio di tutela;
b. delle quote versate dai consorziati ammessi a far parte del consorzio di tutela;
c. dagli eventuali nuovi versamenti in conto capitale deliberati dall’assemblea dei consorziati;
d. dei risultati economici dei bilanci annuali (avanzi e disavanzi di gestione);
e. dell’eventuale contributo di avviamento versato dai nuovi soggetti utilizzatori della DO o IG, al momento della immissione nel sistema di controllo, di cui al precedente art. 11;
f. delle componenti straordinarie positive o negative non riferibili alla gestione ordinaria quali contributi volontari versati da consorziati o da terzi (enti pubblici e privati) ed eventuali lasciti o donazioni.

 

Art. 13. Obbligo di informazione di cui all’art. 41, comma 7 della Legge

1. Il consorzio di tutela riconosciuto che esercita le funzioni previste all’art. 41, comma 4 della Legge, e che richiede i contributi per lo svolgimento di tali funzioni ai soggetti non aderenti al consorzio di tutela immessi nel sistema di controllo della relativa denominazione tutelata, rende disponibile, anche in forma telematica, ai soci ed ai non aderenti al consorzio di tutela la seguente documentazione e/o informazioni inerenti le attività di cui all’art. 41, comma 4, lettere da a) ad e) della Legge:

a. bilanci preventivi e consuntivi;
b. comunicazioni inerenti l’importo e le modalità di pagamento dei contributi annuali;
c. delibere delle assemblee di approvazione dei bilanci;
d. delibere delle assemblee e/o del Consiglio di amministrazione, relative all’esercizio delle funzioni di cui all’art. 41, comma 4 lettere da a) a e) della Legge;
e. relazione annuale sulle attività svolte, trasmessa al DIQPAI, ai sensi del decreto dipartimentale;
f. programma annuale o pluriennale delle attività di promozione di cui all’art. 41, comma 4, lettera d) della legge nonché la rendicontazione delle attività di promozione svolte;
g. programma di vigilanza concordato con l’ICQRF, ai sensi dell’art. 7 del presente decreto.

 

2. Il consorzio di tutela riconosciuto che esercita le funzioni previste all’art. 41, comma 4 della Legge, rende disponibile ai nuovi soggetti utilizzatori della denominazione, al momento dell’immissione nel sistema di controllo, ai quali richiedano il contributo di avviamento, la delibera del Consiglio di amministrazione che ha determinato l’ammontare del contributo, di cui all’art. 11 del presente decreto.

3. Le modalità relative a tali comunicazioni sono stabilite da un regolamento consortile predisposto dal consorzio di tutela ed approvato dal DIQPAI.

Art. 14. Cause di incompatibilità di cui all’art. 41, comma 12 della Legge

1. La nomina come componente dell’organo amministrativo e gli incarichi dirigenziali, comunque denominati, in un consorzio di tutela riconosciuto ai sensi dell’art. 41 della Legge, sono incompatibili con l’assunzione ed il mantenimento di incarichi svolti, a qualsiasi titolo, presso le autorità pubbliche e gli organismi di controllo privati, di cui all’art. 64 della Legge e presso gli organismi di accreditamento degli organismi di controllo.

2. La nomina come componente di un organo sociale del consorzio di tutela, riconosciuto ai sensi dell’art. 41 della Legge è incompatibile con l’assunzione ed il mantenimento dell’incarico di agente vigilatore per la DO od IG per il quale il consorzio di tutela risulta incaricato.

Art. 15. Vigilanza sull’operatività dei consorzi di tutela riconosciuti ai sensi dell’art. 41 della Legge

1. La vigilanza sul rispetto, da parte del consorzio di tutela, delle prescrizioni ministeriali è effettuata dal DIQPAI sulla base del decreto dipartimentale.

2. L’intimazione ad adempiere al consorzio di tutela prevista dall’art. 82, comma 1, della Legge, anche a seguito di segnalazione degli organi di controllo ufficiali, è effettuata dal DIQPAI e trasmessa per conoscenza, anche all’ufficio territoriale dell’ICQRF, individuato ai sensi dell’art. 7, commi 4 e 5. Il consorzio di tutela deve dare riscontro dell’avvenuto adempimento al DIQPAI e per conoscenza all’ufficio territoriale dell’ICQRF, come sopra individuato. Quest’ultimo, in caso di mancato adempimento da parte del consorzio di tutela entro i termini previsti dal medesimo art. 82, comma 1, procede all’accertamento ed alla contestazione della relativa violazione.

Art. 16. Autorizzazione per l’utilizzo del riferimento della DOP O IGP sui prodotti composti, elaborati o trasformati

1. Il consorzio di tutela riconosciuto ai sensi dell’art. 41, comma 4 della legge rilascia, a titolo gratuito, l’autorizzazione di cui all’art. 44 della legge ai soggetti che utilizzano il riferimento a una DO o IG nell’etichettatura, nella presentazione o nella pubblicità di prodotti composti, elaborati o trasformati. Lo stesso consorzio provvede all’attivazione, alla tenuta e al mantenimento dell’elenco delle autorizzazioni rilasciate ai soggetti utilizzatori.

2. Per il rilascio dell’autorizzazione di cui al comma 1, il consorzio di tutela opera senza discriminazione e secondo i principi della comunicazione della commissione UE 2010/C341/03 concernente gli «Orientamenti sull’etichettatura dei prodotti alimentari che utilizzano come ingredienti prodotti a denominazione di origine protetta (DOP) o a indicazione geografica protetta (IGP)» o, in alternativa, secondo i «Criteri per l’utilizzo del riferimento ad una denominazione d’origine protetta o ad una indicazione geografica protetta nell’etichettatura, nella presentazione o nella pubblicità di un prodotto composto, elaborato o trasformato» predisposti dal DIQPAI e pubblicati sul sito del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali.

3. Il consorzio può adottare un prospetto tariffario da applicarsi a carico dei soggetti autorizzati ai sensi del comma 1, per il rimborso dei costi sostenuti per l’effettuazione dell’attività di vigilanza sul rispetto delle condizioni alla base del rilascio della medesima autorizzazione. Il consorzio di tutela trasmette al DIQPAI il predetto prospetto tariffario al fine della sua verifica e approvazione.

4. Il consorzio di tutela trasmette, trimestralmente, l’elenco delle autorizzazioni rilasciate ai sensi del precedente comma 1 al DIQPAI che provvederà ad inoltrarlo alla PREF. DIQPAI provvede altresì a trasmettere trimestralmente alla PREF l’elenco aggiornato delle autorizzazioni rilasciate dal medesimo, ai sensi dell’art. 44 della Legge.

Art. 17. Disposizioni transitorie e finali

1. I consorzi di tutela, riconosciuti ai sensi dell’art. 17 del decreto legislativo alla data di entrata in vigore del presente decreto, sono tenuti ad adeguarsi alle disposizioni di cui al presente decreto ed a trasmettere al Ministero – entro un anno dalla data di entrata in vigore del decreto stesso – tutta la documentazione atta a comprovare il rispetto delle prescrizioni ministeriali.

2. I consorzi di tutela, riconosciuti ai sensi dell’art. 17 del decreto legislativo alla data di entrata in vigore del presente decreto, adeguano, nel caso in cui si renda necessario i propri statuti alle disposizioni di cui al presente decreto, entro un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto stesso.

3. Il Ministero verificata la documentazione e l’adeguamento dello statuto di cui ai precedenti comma e, qualora conformi alle prescrizioni ministeriali, conferma – con decreto – il riconoscimento ai consorzi di tutela e l’incarico a svolgere le funzioni di cui all’art. 41, comma 1 ovvero – qualora vi siano i presupposti richiesti – le funzioni di cui all’art. 41, comma 4 della Legge.

4. L’incarico attribuito ai consorzi di tutela delle sottozone dei vini a DO ai sensi dell’art. 17 del decreto legislativo, scade un anno dopo l’entrata in vigore del presente decreto.

5. Dalla data di entrata in vigore del presente decreto è abrogato il decreto del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali 16 dicembre 2010, recante «Disposizioni generali in materia di costituzione e riconoscimento dei consorzi di tutela delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche dei vini».

6. Entro un anno dall’entrata in vigore del presente decreto il Ministero effettua la verifica sull’implementazione delle disposizioni dello stesso decreto e, se del caso, con decreto ministeriale, sentita la conferenza Stato-Regioni, adotta le misure atte a migliorare l’efficienza della gestione delle attività dei consorzi di tutela.

Il presente decreto è trasmesso all’organo di controllo per la registrazione ed entra in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

Ratifica CETA

 

pratiche enologiche tecniche cantina

Le pratiche enologiche tecniche cantina rappresentano le modalità con cui viene prodotto il vino.


Spesso esse comportano l’utilizzo di additivi, talora suscettibili di lasciare residui nella bevanda finale (uno per tutti, l’anidride solforosa utilizzata come conservante). Inoltre, se la qualità di un vino discende soprattutto o, addirittura, unicamente dall’insieme dei trattamenti somministrati durante la sua lavorazione, al punto da fargli perdere o rendere molto labile il collegamento con le caratteristiche dell’uva pigiata, insorge il rischio per il consumatore di essere tratto in inganno sulle reali qualità del prodotto acquistato.

La legislazione su tale materia (pratiche enologiche tecniche cantina) persegue allora una triplice finalità: tutelare sia la salute sia l’interesse economico del consumatore e quello dei produttori concorrenti (uno onesto potrebbe essere danneggiato da chi usa pratiche scorrette, poiché quest’ultimo potrebbe così risucire ad abbatere i costi di produzione, facendo uscire dal mercato chi opera correttamente).

A livello internazionale, le pratiche di cantina vengono concordate in sede OIV (Organizzazione Internazionale della Vite e del Vino), la quale ha elaborato due codici (tra loro complementari):

  • il Codice delle pratiche enologiche, il quale comprende la definizione dei prodotti vitivinicoli nonché l’elendo e le specifiche delle pratiche e dei trattamenti enologici (ammessi o non ammessi)
  • il Codice enologico internazionale, che riunisce le descrizioni dei principali prodotti chimici, organici o gas utilizzati nell’elaborazione e la conservazione dei vini. Le condizioni del loro impiego, la modalità e i limiti del loro utilizzo sono stabiliti dal Codice Internazionale delle Pratiche Enologiche.

Tali atti non hanno però effetto vincolante, giacché si deve invece guardare alle norme emanate dallo Stato in cui un vino viene prodotto.

Nell’Unione Europea, è la normativa comunitaria a stabilire quali sono le pratiche enologiche permesse.

Ciò avveiene mediante il cosiddetto “Codice enologico comunitario“, costituito dal regolamento 934/2019 della Commissione (che ha sostituito abrogandolo il regolamento 606/2009/UE della Commissione), il quale dà attuazione ai principi sulle tecniche di cantina stabilite nella regolamento sulla OCM Unica (regolamento 1308/2013/UE di Consiglio e Parlamento Europeo), il quale nell’Allegato VII già contiene regole alquanto stringenti sulle operazioni di arricchimento, acidificazione e deacidificazione dei vini.

Bisogna tuttavia avvisare che la normativa comunitaria si isprira fortemente alle regole stabilite in sede OIV: di conseguenza, queste ultime diventano un criterio interpretativo ed integrativo delle prime.

Il regolamento sulla OCM Unica fa poi salvo il diritto degli Stati membri di limitare l’uso delle pratiche enologiche ammesse a livello comunitario, qualora ciò serva per tutelare la qualità dei vini DOP e IGP.

Il Testo Unico Vino ben poco dice al riguardo, giacché così sancisce all’art.4:

 

Per la produzione e la commercializzazione dei prodotti
vitivinicoli sono direttamente applicabili le specifiche disposizioni
stabilite dalla normativa dell’Unione europea e le disposizioni
nazionali della presente legge e dei relativi decreti attuativi del
Ministro emanati ai sensi della medesima legge.

 

Sono infatti i disciplinari delle singole denominazioni a stabilire quali sono le pratiche enologiche tecniche cantina ammesse per produrre il relativo vino.

 

Nel contesto degli scambi internazionali, il commercio del vino può essere ostacolato, qualora lo Stato di importazione preveda pratiche enologiche tecniche cantina diverse da quelle del paese ove il vino viene prodotto.

L’ostacolo discende dalla circostanza che solitamente ogni paese ammette sul proprio territorio la commercializzazione solo del vino che sia prodotto in conformità alle proprie regole nazionali in materia.

Per ovviare a ciò, l’Unione Europea ha concluso una rete di accordi con i principali paesi del mondo, sia produttori che consumatori di vino, così ottenendo che le regole di produzione fissate dall’Unione sia riconosciute anche negli Stati che sono parte di detti accordi.

Ciò è avvenuto con gli Stati Uniti d’America, il Cile, il Sud-Africa, l’Australia e molti altri paesi.

Ovviamente, tali accordi si fondano sul principio della reciprocità, il che necessariamente favorisce anche le importazioni di vini extra-comunitari nel territorio dell’Unione.


 

Produzione biologica

La riforma della regole europee sulla produzione biologica


Nel mese di aprile 2018 si è concluso il complesso procedimento legislativo – che ha coinvolto il Consiglio Europeo (dove siede e vota il rappresentante del Governo italiano), il Parlamento (i cui membri italiani sono 75 su un totale di 751, sebbene siano organizzati in base allo schieramento politico e non alla nazionalità) e la Commissione  – per la modificazione del regolamento generale dell’Unione Europea sull’agricoltura biologica e l’etichettatura dei prodotti così ottenuti, attualmente costituito dal Regolamento “base” 834/2007 del Consiglio UE.

Quest’ultimo è poi completato dalle sue norme attuative, portate dal Regolamento 889/2008 della Commissione, al cui interno si trovano anche le disposizioni sulla produzione del vino biologico (art. 29 ter e ss.).

La nuova normativa “di base” – costituita dal regolamento 848/2018/UE del Consiglio e del Parlamento,  molto più dettagliata della precedente  – entrerà in vigore nell’anno 2021. Sebbene il “vecchio” (ma ancora vigente) regolamento venga formalmente abrogato, la disciplina che porta non è completamente stravolta da quello “nuovo”, ma solo modificata in alcune parti.

Di conseguenza, nel frattempo la Commissione dovrà provvedere ad emanare le relative norme di attuazione, così modificando a sua volta quelle attualmente in essere, ove necessario.

Esaminare in modo specifico l’intero nuovo regolamento non è qui materialmente possibile. Limitiamoci quindi ad evidenziarne alcuni aspetti significativi.

L’idea fondante l’intera materia è che “il rispetto di norme rigorose in materia di salute, di ambiente e di benessere degli animali nell’ambito della produzione biologica è intrinsecamente legato all’elevata qualità di tali prodotti”.  Inoltre, le regole sulla produzione biologica – focalizzate sulla sostenibilità  – vengono considerate come uno strumento attuativo degli stessi obiettivi sia della PAC (Politica Agricola Comunitaria) che della stessa politica ambientale europea.

Entrando nel dettaglio, il nuovo regolamento individua con precisione quali sono i prodotti che, osservando le pertinenti disposizioni di produzione da esso fissate, possono essere poi considerati (e quindi etichettati) come “biologici”: quelli provenienti dall’agricoltura, incluse l’acquacoltura e l’apicoltura; i prodotti agricoli trasformati destinati ad essere utilizzati come alimenti o mangimi ed altri aventi simili caratteristiche d’impiego, come il lievito; il sale marino e altri sali utilizzati per gli alimenti e i mangimi. Sono invece esclusi i prodotti che provengono dalla caccia o pesca di animali selvatici.

Per quanto concerne la scelta delle varietà vegetali, l’attenzione del legislatore si concentra “sui risultati agronomici, sulla diversità genetica, sulla resistenza alle malattie, sulla longevità e sull’adattamento a diverse condizioni pedoclimatiche locali” nonché sul rispetto delle “barriere naturali per quanto riguarda gli incroci”. Ciò implica che i sistemi di produzione biologica vegetale utilizzino materiale riproduttivo vegetale che sia in grado di adattarsi alla resistenza alle malattie, alle diverse condizioni pedoclimatiche locali e alle specifiche pratiche colturali dell’agricoltura biologica.

Vengono poi ribaditi e rafforzati alcuni precedenti divieti: “L’uso di radiazioni ionizzanti, clonazione animale e animali poliploidi artificialmente indotti od organismi geneticamente modificati (“OGM”), nonché prodotti derivati od ottenuti da OGM, è incompatibile con il concetto di produzione biologica e con la percezione che i consumatori hanno dei prodotti biologici

Riaffermato il principio secondo cui “i vegetali devono essere nutriti soprattutto attraverso l’ecosistema del suolo”, il che implica che essi siano “prodotti sul, e nel, suolo vivo, in associazione con il sottosuolo e il substrato roccioso” Di conseguenza, in via di principio non vengono considerate biologiche “né la produzione idroponica, né la coltivazione di vegetali in contenitori, sacche o aiuole in cui le radici non sono in contatto con il suolo vivo”. Vi sono però alcune eccezioni: innanzitutto, in favore della produzione di semi germogliati o cespi di cicoria e la produzione in vaso di piante ornamentali e di erbe aromatiche che sono vendute in vaso al consumatore; inoltre, per quegli operatori (attivi solo in Finlandia, Svezia e Danimarca) che hanno sviluppato un’attività economica coltivando vegetali in “aiuole demarcate”, i quali vengono autorizzati a farlo per altri 10 anni. Il che ora esclude la legittimità di tale pratica, al di fuori di detta eccezione.

Il rispetto del suolo porta altresì a richiedere che in ogni fase di produzione, preparazione e distribuzione, gli operatori adottino, “se del caso, misure preventive volte a garantire la conservazione della biodiversità e la qualità del suolo” nonché agiscano – in modo però consono –  al fine di prevenire e lottare contro gli organismi nocivi e le malattie, evitando effetti negativi su ambiente e salute di animali e vegetali.

In buona sostanza, il legislatore comunitario richiede di “progettare e gestire in modo appropriato processi biologici basati su sistemi ecologici e impiegando risorse naturali interne al sistema di gestione”. Quando ciò non sia possibile, egli acconsente sì il ricorso a “fattori di produzione esterni”, ma ad alcune condizioni: per quanto concerne il materiale riproduttivo vegetale, il legislatore impone di darsi “priorità alle varietà selezionate per la loro capacità di rispondere alle esigenze e agli obiettivi specifici dell’agricoltura biologica”. In tale ottica, viene demandato alla Commissione il potere di adottare atti regolamentari portanti alcune deroghe, concernenti fra l’altro l’uso del materiale riproduttivo vegetale in conversione o non biologico.

Ritenendosi comunque utile l’uso di “materiale riproduttivo vegetale che non appartenga a una varietà, ma piuttosto a un insieme vegetale nell’ambito di un unico taxon botanico con un elevato livello di diversità genetica e fenotipica tra le singole unità riproduttive”, esso viene permesso nella produzione biologica, consentendone agli operatori la commercializzazione senza dover rispettare i requisiti di registrazione e certificazione previsti da vigenti direttive comunitarie.

Per quanto concerne la gestione e alla fertilizzazione del suolo, sono specificate le pratiche colturali autorizzate e le condizioni per l’uso di concimi e ammendanti. Circa i prodotti fitosanitari, viene sì sancito che il  loro impiego dovrebbe essere fortemente limitato, ma non viene vietato, ammettendolo qualora il ricorso ad altre tecniche (quali la rotazione delle colture) “non garantisca una protezione adeguata”.

Pone delicati problemi il verificarsi della presenza di prodotti o sostanze non autorizzati per l’uso nella produzione biologica in prodotti commercializzati come prodotti biologici o in conversione. Il regolamento stabilisce innanzitutto alcuni principi su come debbano essere condotte le indagini per tale accertamento. Poi – essendo mancato l’accordo politico su come disciplinare i casi di loro presenza – il regolamento consente agli Stati membri, che abbiano già sviluppato (come l’Italia) una normativa che vieti di commercializzare come biologici gli alimenti contenenti detti “contaminanti”, di continuare a mantenere il divieto, ma solo nei confronti degli alimenti prodotti sul loro territorio. Per contro, il regolamento impedisce a tali Stati di bloccare l’immissione sul mercato nazionale di prodotti ottenuti in altri Stati membri, che invece contengono siffatti “contaminanti”.

Su questo punto si concentrano principalmente le critiche sollevate in Italia contro il regolamento. Ciò nonostante, il nostro Governo nulla ha detto in occasione dell’ultima votazione tenutasi il 15 maggio 2018 in sede di Consiglio dei Ministri (al contrario di Francia, Svezia, Lituania e Repubblica Caca, che hanno quanto meno formalizzato le loro obiezioni, vertenti però su altre questioni).

Un principio simile vale anche per le ipotesi in cui, per determinate categorie di alimenti, non sussistano norme comunitarie dettagliate sulla produzione biologica (contenute nell’Allegato II al regolamento, nella cui parte IV si trovano anche quelle per il vino biologico, ovvero delegate alla Commissione).

Per quanto concerne l’allevamento di animali, la loro produzione “senza terra” viene vietata, ad eccezione dell’apicoltura. Particolare attenzione è prestata al loro benessere: devono avere accesso continuo a spazi all’aria aperta per fare del moto; vanno evitati o ridotti al minimo sofferenze, dolore o angoscia, in tutte le fasi della loro vita. In via di massima, non è lecito tenere gli animali legati e praticare loro mutilazioni. Viene però permesso, “a determinate condizioni, di introdurre animali allevati in modo non biologico in un’unità di produzione biologica” nonché l’uso di mangimi in conversione provenienti dall’azienda dell’allevatore. Quanto alla salute animale, vietato l’utilizzo preventivo di medicinali allopatici ottenuti per sintesi chimica, compresi gli antibiotici. In caso di malattia o di ferita che necessiti di un trattamento immediato, il ricorso a tali prodotti dovrebbe limitarsi al minimo necessario.

In merito all’etichettatura, merita evidenziare che gli alimenti trasformati dovrebbero essere etichettati come biologici solo quando tutti o quasi tutti gli ingredienti di origine agricola siano biologici.

Introdotte semplificazioni nei controlli sia per  i piccoli dettaglianti che vendono prodotti biologici non preimballati (esentati da obblighi di notifica e certificazione) e per i piccoli agricoltori (che possono accedere alla certificazione di gruppo).

Nuovo regolamento 848/2018/UE su produzione biologica 

 

Accise vino vendite on-line

La Commissione UE ha condotto una consultazione pubblica per la riforma della direttiva sulle accise, fondamentale per consentire lo sviluppo dell’e-commerce del vino verso l’estero (Accise vino vendite on-line)


Per le vendite on-line di vino verso clienti residenti all’estero, lo scoglio è infatti rappresentato dal regime fiscale delle accise, il quale implica il disbrigo di formalità burocratiche piuttosto articolate, tali da comportare costi che rendono antieconomiche le vendite di modesto valore (Accise vino vendite on-line).

La materia è attualmente regolata dalla direttiva del Consiglio 2008/118/CE, la cui riforma appare fondamentale per semplificare le formalità burocratiche, in modo da consentire ai produttori di assolvere in modo più facile il pagamento delle accise.

Il regime delle Accise nell'Unione Europea

 

Il punto fondamentale per la riforma appare il consentire ai produttori di:

  • inviare direttamente il proprio vino venduto on-line all’indirizzo indicato dai loro clienti-consumatori residenti in altro Stato della UE, evitando di dover passare da un deposito doganale sito in tale Stato;
  • pagare direttamente dalla loro sede in via telematica le accise dovute allo Stato membro verso il quale spediscono il prodotto, così mettendolo in commercio (operazione che ha scattare il dovere di pagare l’accisa).

Semplificare l’e-commerce del vino appare vitale per l’economia italiana!

 


In vista di un’eventuale riforma della direttiva sulle accise, la Commissione UE ha dunque promosso una pubblica consultazione, ormai chiusa.

In tale contesto, purtroppo, sono stati molto modesti i contributi pervenuti alla Commissione per quanto concerne il settore del vino.

Per quanto concerne l’e-commerce vino, infatti, è intervenuta la Federación Española del Vino, osservando che andrebbe realizzato un meccanismo di “Mini – One Stop Shop (MOSS) for excise duties“:

“regarding the state of play on Distance selling in the EU, FEV would like to underline the importance of establishing a Mini – One Stop Shop (MOSS) for excise duty payment, as it is being done for VAT; as it will enable the development of our sector and will especially benefit SMEs”

Per contro, il CEEV (Comitè europèen  des entreprises vins) ha ignorato la questione, forse importante sopratutto per i piccoli produttori ed i consorzi.

La consultazione sembra quindi essersi tradotta in un’occasione sprecata per il disinteresse degli operatori.

 

Consultazione sulla riforma della direttiva sulle accise


 

Sanzioni mancata contabilizzazione calore

Sanzioni mancata contabilizzazione calore sono adesso previste dal decreto legislativo 102/2014: da 500 a 2500 euro, la cui applicazione è facilitata dall’esistenza del catasto elettronico degli impianti termici, ormai istituito da varie Regioni (quali Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, …)


Le sanzioni mancata contabilizzazione calore sono stabilite dal comma 8 dell’art.16 del d. lgs. 102/2014 (nel testo vigente), il quale diviene uno strumento di pressione nei confronti delle assemblee condominiali poco disposte ad approvare l’installazione dei sistemi di contabilizzazione dewl riscaldamento e dell’acqua calda sanitaria centralizzata:

Il condominio alimentato da teleriscaldamento o da teleraffrescamento o da sistemi comuni di riscaldamento o raffreddamento, che non ripartisce le spese in conformità alle disposizioni di cui all’articolo 9, comma 5, lettera d), è soggetto ad una sanzione amministrativa da 500 a 2500 euro.


Il controllo e l’irrogazione delle sanzioni viene decisamente facilitato dall’esistenza del catasto elettronico impianti termici, istituito in Piemonte come in altre Regioni (quali Veneto, Emilia Romagna, …)


Il Catasto elettronico impianti termici permette di gestire i dati degli impianti termici presenti sul territorio regionale e di condividerli con la Pubblica Amministrazione, in linea con la normativa che prevede che dal 5 ottobre 2014 si utilizzino i nuovi modelli di libretto di impianto e di rapporto di efficienza per le attività di installazione o manutenzione degli impianti termici.


 

sanzioni-mancata-contabilizzazione-calore

Gli obiettivi del Catasto elettronico impianti termici:

  • realizzare la dematerializzazione delle pratiche amministrative;
  • uniformare le procedure per la gestione degli impianti termici;
  • assicurare la raccolta e la condivisione di dati omogenei sul territorio regionale;
  • realizzare servizi per i soggetti coinvolti nella gestione dell’impianto termico nel corso del suo intero ciclo di vita;
  • fornire alle autorità competenti e agli ispettori strumenti per le attività ispettive e per la predisposizione degli eventuali provvedimenti sanzionatori;
  • gestire le anomalie e le prescrizioni per gli impianti termici che non risultino in regola e il conseguente iter di sospensione dell’esercizio degli impianti fino alla loro regolarizzazione.

 


 

Preferenza collocamento figli presso madre

Secondo la Cassazione, è corretto valorizzare il criterio della preferenza collocamento figli presso madre, quando essi sono in tenera età, poiché ciò consente di perseguire il primario interesse morale e materiale dei bambini, pur doverosamente e contestualmente armonizzato coi fondamentali diritti individuali di ciascuno dei genitori.


Cassazione, sentenza 14 settembre 2016, n.18087


Svolgimento del processo

Con verbale omologato il 10.01.2013 i coniugi Sigg.ri I.I. e C.G. si separavano consensualmente, dinanzi al Tribunale di Vasto, stabilendo per i due figli, nati l’uno il (OMISSIS) e l’altra il (OMISSIS), l’affidamento condiviso con collocamento paritario presso le diverse abitazioni in cui all’epoca ciascuno di loro risiedeva in (OMISSIS).

Con decreto del 5.08.2015 il medesimo Tribunale di Vasto, anche all’esito della disposta CTU, respingeva la domanda (in data 21.03.2014) con la quale, in modifica delle convenute condizioni di affidamento condiviso dei due figli, la I. aveva chiesto il loro collocamento presso di sè: accoglieva, invece, la contrapposta domanda di collocamento dei bambini presso di lui, formulata dal C..

Con decreto n. 914 del 27.10-3.11.2015 la Corte di appello di L’Aquila, in accoglimento nei precisati limiti del reclamo della I., disponeva il collocamento prevalente dei figli presso di lei. privilegiandola rispetto al nutrito in ragione dell’età dei bambini.

La Corte territoriale premetteva che in primo grado la I. aveva fatto presente che col provvedimento di separazione si era stabilito che i due figli della coppia sarebbero stati collocati in maniera paritaria presso i genitori, secondo un articolato calendario. Aveva dedotto che il frenetico pendolarismo non favoriva la serenità dei bambini, ed aveva perciò chiesto che fossero collocati prevalentemente presso di lei. A sua volta il C. aveva chiesto il collocamento dei bambini presso di sè e a tale fine aveva fatto presente che la moglie (avendo nelle more vinto il concorso per l’accesso alla Magistratura) aveva scelto la sede lontanissima di (OMISSIS), andando a vivere a (OMISSIS). All’esito il Tribunale aveva rilevato che la nuova situazione abitativa dei coniugi rendeva inattuabile il regime di collocazione paritaria concordato con la separazione: e sulla scorta di una c.t.u. aveva individuato nel C. il genitore presso il quale era più opportuno collocare in via prevalente i bambini.

Col reclamo, dunque, la I. aveva in primo luogo infondatamente eccepito per più profili la nullità della decisione. Andava subito esclusa la dedotta nullità della c.t.u., posto che la mancanza d’imparzialità del c.t.u. era stata già condivisibilmente esclusa dal Tribunale, investito della sua ricusazione; il consulente ben poteva redigere i verbali in un secondo momento, o non redigerli affatto: tutte le sedute nelle quali erano stati sentiti soggetti a vario titolo interessati al processo erano state registrate, per cui la reclamante era in condizione di verificare la rispondenza dello scritto a quanto accaduto nel corso della seduta; l’esperto aveva concordato coi consulenti di parte le modalità con le quali avrebbe ascoltato i terzi; il c.t.u. ben poteva acquisire nuovi documenti, nel contraddittorio delle parti, così com’era avvenuto nel caso di specie (tant’era che la reclamante non aveva indicato quale documento fosse stato acquisito abusivamente), specialmente in un procedimento di volontaria giurisdizione, contraddistinto da una particolare snellezza e duttilità delle forme. e sostanzialmente privo di scansioni temporali che determinassero la decadenza della parte dalla prova; il verbale redatto dal c.t.u. era atto del pubblico ufficiale, fornito di fede privilegiata, e la veridicità del suo contenuto avrebbe dovuto essere contestata con la querela di falso.

Da ultimo, e definitivamente, la reclamante si era limitata ad affermare che il verbale (per essere stato redatto a distanza di tempo) avrebbe potuto avere un contenuto che non rispondeva alle dichiarazioni rese dai soggetti sentiti dall’esperto, ma non si era spinta ad affermare che ciò fosse effettivamente avvenuto nè quale diverso contenuto le conversazioni avessero avuto (contenuto che, per quanto detto, era agevolmente evincibile dalle fonoregistrazioni); nè, da ultimo, aveva indicato quale incidenza la dedotta diversità avrebbe sortito sulle conclusioni a cui l’esperto era poi pervenuto.

Sicchè la doglianza risultava inammissibile – per difetto di specificità – prima ancora che infondata nel merito.

Allo stesso modo andava esclusa la nullità della decisione per non essere stati ascoltati i bambini: il primo Giudice aveva condivisibilmente rimesso l’inerente compito al c.t.u., soggetto che era dotato della necessaria sensibilità e degli indispensabili strumenti tecnici e culturali.

Inoltre occorreva considerare che si trattava di fanciulli in tenerissima età (tre e cinque anni rispettivamente), come tali sforniti di adeguata maturità e discernimento, sui quali l’audizione da parte del collegio avrebbe sortito effetti potenzialmente devastanti, una volta che fossero stati chiamati ad individuare il genitore col quale d’ora in avanti avrebbero voluto abitare stabilmente, scelta che. in una mente immatura, sottendeva quella del genitore più amato.

Venendo, finalmente, al merito della questione, e quindi all’individuazione del genitore presso il quale fosse più opportuno collocare i bambini in via prevalente. la scelta doveva prescindere dalla ricerca del soggetto che avesse per primo, o con maggiore intensità, violato gli accordi ripassati tra i coniugi al momento della separazione; e dovesse invece appuntarsi sulla ricerca della soluzione che avesse meglio privilegiato il futuro benessere morale e materiale dei piccoli e la loro serena maturazione psicologica.

Ed ai fini qui considerati gli elementi di giudizio offerti dal processo non potevano far ritenere che la I. fosse sfornita di adeguate capacità genitoriali, educative e di accudimento, così da dover superare il criterio che privilegiava la madre, ogni volta che si trattasse d’individuare il genitore col quale figli in cui (prescolare o) scolare dovessero convivere in via prevalente.

Era vero che la I., in primo grado, aveva ricusato praticamente tutti i soggetti coinvolti nel processo con poteri decisionali, così mostrando una totale mancanza di fiducia nel prossimo, prima ancora che nell’onestà intellettuale e nelle capacità tecniche del c.t.u. e dei Giudici. Comportamento che, peraltro, induceva particolare sorpresa quando promanava, come nella specie, da un soggetto che si apprestava a svolgere quelle stesse funzioni: e che aveva sicuramente acuito le divergenze tra i coniugi, dilatato i tempi del processo, posto ai Giudici questioni “ulteriori – e marginali rispetto alla vera materia del contendere, probabilmente inducendo nei Giudici il convincimento che ella non fosse dotata di sufficiente equilibrio e di adeguata fiducia ed apertura verso il prossimo, per cui avrebbe potuto pregiudicare la sana crescita psico-fisica dei figli.

Doveva tuttavia considerarsi che le scelte processuali andavano di norma attribuite al difensore, per cui non potevano riverberarsi in danno della parte: ed in tale ottica apparivano irrilevanti ai fini qui considerati.

Allo stesso modo. la scelta materna di una sede di lavoro lontana non poteva essere attribuita, semplicisticamente, alla volontà di separare il padre dai figli, o di rendere al primo più difficoltosa la frequentazione dei bambini; si spiegava, invece, in ragione della possibilità di andare a vivere a (OMISSIS), dove risiedeva la sorella con i suoi figli, cosi da poter fruire del suo aiuto, essere introdotta nel suo giro di amicizie, e consentire che i cuginetti crescessero assieme.

Da ultimo, ma di particolare rilievo, era la circostanza che anche il c.t.u. avesse dato atto del possesso, in capo alla I. – e per la verità anche in capo al C. – di adeguate capacità genitoriali, essendo risultati entrambi in grado di sviluppare una buona relazione coi figli, di accompagnarne i processi di sviluppo e di socializzazione, di tutelarli ed accudirli.

Quanto all’altro argomento utilizzato dal primo Giudice (di non compromettere il radicamento dei bambini sul territorio) occorreva considerare che il C. (magistrato ordinario inquirente ed all’epoca della domanda di revisione in servizio presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Vasto) era stato nelle more trasferito alla Procura presso il Tribunale di Chieti, per cui quel radicamento sembrava destinato ad interrompersi in ogni caso.

Non senza considerare che i minori non risultavano avere parenti in Vasto (i nonni paterni risultano risiedere in (OMISSIS), anche se si recavano a (OMISSIS) con una certa assiduità, per stare coi nipoti) e che alla loro età era estremamente agevole e naturale farsi nuovi amici, sia nell’ambito scolastico che in quello sportivo.

Da ultimo, la disprassia da cui era affetto il primogenito ben avrebbe potuto essere curata adeguatamente anche a (OMISSIS).

In conclusione, non sussistevano ragioni per derogare al criterio di scelta ordinariamente seguito, che vedeva i bambini in età scolare collocati in via prevalente con la madre, anche quando, come nella specie, il padre avesse dimostrato eccellenti capacità genitoriali.

Quanto al diritto-dovere del padre di tenerli con sè, in mancanza di diversi accordi di volta in volta presi dai coniugi, andava sostanzialmente recepito il condiviso calendario proposto dalla I..

Per il resto, avrebbe dovuto trovare applicazione la proposta contenuta nelle conclusioni del reclamo, con esclusione, per la I., della facoltà di opporre divieti, odi ostacolare in qualsiasi modo il diritto del marito a stare coi figli, che aveva facoltà di portare con sè anche all’estero e con la correlata esortazione, rivolta ad entrambi, a mostrare reciproca e l’attiva collaborazione, a ricercare soluzioni condivise nelle scelte significative per la crescita e l’educazione dei figli, a fare in modo di presentare positivamente la figura dell’altro coniuge. in vista del superiore interesse dei bambini a superare la separazione nella maniera meno traumatica possibile.

Da ultimo, restava da esaminare la richiesta della reclamante, di vedersi attribuito un assegno di mantenimento di Euro 600 per sè, ed un ulteriore assegno di Euro 900, quale contributo al mantenimento dei due figli.

Quanto al primo, occorreva respingere la domanda della moglie di assegno per sè. Quanto all’assegno dovuto per i figli, tenuto conto della loro ancor tenera età, e delle inerenti, ridotte, esigenze, andava condivisa la determinazione dell’ammontare (Euro 150 per ciascun figlio, da rivalutare periodicamente) attuata dal Tribunale col provvedimento impugnato; a tale somma andavano poi aggiunte, naturalmente, le spese mediche e quelle straordinarie (da concordare tra i coniugi, se non indispensabili o indifferibili), in ragione di 1/2 ciascuno.

Il parziale rigetto del reclamo giustificava la compensazione delle spese del doppio grado, mentre le spese della c.t.u. andavano poste a carico della parti in ragione di 1/2 ciascuna.

Avverso questo decreto il C. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro articolati motivi. illustrato da memoria e notificato al PG % il giudice a quo ed alla I. che ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione

A sostegno del ricorso il C. denunzia:

1) “Violazione dell’art. 337 ter c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per contrasto irriducibile fra affermazioni tra loro inconciliabili.

Violazione degli artt. 115, 116 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa considerazione di un fatto materiale decisivo (la firma apposta sulle istanze di ricusazione)”.

Si duole dell’accoglimento del reclamo della moglie e del ribaltamento della decisione del primo giudice, assumendo in sintesi che:

– la decisione è sostenuta da motivazione meramente apparente, di sole sette righe;

– applicando il criterio presuntivo della c.d. Maternal preference si è in concreto conculcato l’interesse morale e materiale dei figli e perciò violato l’art. 337 ter c.c..

– le risultanze della CTU disposta dal Tribunale se fossero state considerate avrebbero portato al superamento di quel criterio preferenziale;

– la motivazione del decreto presenta tratti di illogicità ed irrimediabile contraddittorietà: in particolare alle pagine 9, 10 e 11 vengono svolte affermazioni antitetiche e non congruenti;

– la scelta della I. di trasferirsi a (OMISSIS) soddisfaceva soltanto le sue esigenze e non quelle dei figli;

– inconferente è il richiamo alla sentenza di legittimità n. 9633/2015 che involgeva il trasferimento di residenza di una madre già collocataria in via esclusiva della prole;

– è mancata la valutazione della capacità genitoriale materna.

2) “Violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per totalmente omessa valutazione degli esiti della CTU disposta nel corso del procedimento di primo grado. Violazione degli artt. 115, 116 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Il ricorrente assume l’assenza di qualsiasi riferimento alla consulenza tecnica d’ufficio d’indole deducente e percipiente ed agli emersi dati di fatto che avevano indotto il Tribunale al collocamento prevalente dei figli presso di lui. Ribadisce pure che è stato trascurato il merito peritale, ignorata la circostanza di fatto decisiva dell’inadeguatezza genitoriale della I., taciute le sue caratteristiche personologiche e la relativa incidenza sul benessere dei figli e sul loro diritto alla bigenitorialità: ignorato il pregiudizio arrecato al diritto di accesso paterno e la pregressa individuazione di lui quale collocatario dei figli, travisata l’informazione probatoria, resa una motivazione apparente e con deficit di ragionevolezza soprattutto in rapporto all’interesse del figlio G. ed alle sue esigenze anche di mantenimento dell’habitat e di cure, il tutto in tesi accampando un’inesistente regola di esperienza.

3) “Violazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5; Omessa considerazione del fatto decisivo della presenza stabile dei nonni paterni. Violazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Motivazione apparente e/o inconciliabile. Violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omessa valutazione di un fatto decisivo costituito dalla permanenza a Vasto del padre”.

4) “Violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omessa valutazione di un fatto decisivo (omessa valutazione della permanenza a (OMISSIS) della residenza e della dimora del padre)”. Il ricorrente sostiene che i giudici del reclamo solo ipotizzando lo stabilimento della sua nuova residenza in (OMISSIS), ove nel frattempo aveva ottenuto il trasferimento di sede lavorativa, hanno svalutato la conservazione da parte dei suoi figli dell’habitat e delle consuetudini e relazioni di vita, valorizzata invece in primo grado ai fini della collocazione presso di lui.

 

Motivazione

In tutte le varie articolazioni i motivi dedotti dal C., assoggettabili ad esame unitario, sono insuscettibili di favorevole sorte.

L’instaurato procedimento. esperibile a norma degli artt. 337 ter e quinquies c.c., nonchè art. 711 c.p.c., comma 5, e art. 710 c.p.c., ha involto, per come evidenziato, la modifica delle condizioni della separazione consensuale intervenuta tra le parti nel 2013 e segnatamente la revisione del pregresso, specifico accordo sul collocamento paritario dei due figli presso le diverse abitazioni dei genitori, all’epoca ubicate nella stessa città, ed ora in diversa regione ed a notevole distanza chilometrica l’una dall’altra. Tale procedura segue le regole dei provvedimenti camerati contenziosi ed il decreto di cui si discute, emesso all’esito del reclamo proposto ai sensi dell’art. 739 c.p.c., è suscettibile di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, e art. 360 c.p.c., comma 4; può, dunque, involgere i vizi elencati nel primo comma di questa disposizione, e perciò anche quello previsto dal n. 5), ma nel relativo innovato testo, attualmente vigente e nella specie applicabile ratione temporis (in tema cfr Cass. n. 18817 del 2015).

Il fatto poi che non si controverta anche sullo stabilito regime di affidamento condiviso, non attinto dalle contrapposte domande di modifica, rende quanto meno non condivisibile il rilievo del C. di non pertinenza della sentenza di legittimità n. 9633 del 2015 richiamata nel decreto e che invece sostanzialmente pertiene a temi analoghi ai controversi; al riguardo anzi vanno condivisi e ribaditi i principi riaffermati in quel precedente, secondo cui stabilimento e trasferimento della propria residenza e sede lavorativa costituiscono oggetto di libera e non conculcabile opzione dell’individuo, espressione di diritti fondamentali di rango costituzionale, e secondo cui il coniuge separato che intenda trasferire la sua residenza lontano da quella dell’altro coniuge non perde per ciò l’idoneità ad avere in affidamento i figli minori o ad esserne collocatario, sicchè il giudice, ove il primo aspetto non sia in discussione, come nel caso, deve esclusivamente valutare se sia più funzionale all’interesse della prole il collocamento presso l’uno o l’altro dei genitori, per quanto ciò ineluttabilmente incida in negativo sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non affidatario. Anche alla luce di tali regole, l’impugnata decisione appare non confliggere con il dettato normativo, oltre che puntualmente e logicamente motivata, dunque non viziata nemmeno da motivazione apparente. La Corte del reclamo ha diffusamente e plausibilmente spiegato le ragioni, giustamente scevre da intenti e profili colpevolistici, per le quali ha privilegiato il collocamento dei due minori in tenera età presso la madre, in ciò realmente perseguendo il primario interesse morale e materiale dei bambini, pur doverosamente e contestualmente armonizzato coi fondamentali diritti individuali, esercitabili ed esercitati da ciascuno dei genitori. In tale prospettiva, espressamente e chiaramente richiamando anche il contenuto e l’esito delle indagini tecniche d’ufficio già svolte dal Tribunale, che evidentemente non contraddicevano dedizioni affettive ed accudimenti materni – peraltro solo genericamente smentiti dalla controparte -, è stato non solo plausibilmente valorizzato il criterio della c.d. Maternal preference, la cui teorica valenza scientifica il ricorrente non ha tempestivamente contestato, ma è stata anche esclusa legittimamente, argomentatamente e del pari comprensibilmente l’incapacità genitoriale materna, inquadrando la vicenda e le condotte della I. nell’emerso e delicato contesto famigliare e professionale, che peraltro avrebbe pure consentito ad entrambi i coniugi, e non solo alla I., di perseguire riavvicinamenti, tramite rinnovate scelte di sedi lavorative, invece da ambo le parti mancate. D’altra parte nell’impugnato decreto non appare essere stato nemmeno tralasciato di considerare che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacita di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto della prole alla bigenitorialità ed alla crescita equilibrata e serena. La Corte del reclamo ha infatti pure reputato assenti dati sintomatici per quel profilo apprezzabili in senso sfavorevole alla I.; al riguardo non ha mancato di considerare. come già detto, la scelta di sede lavorativa nonchè di esaminare anche le sue condotte processuali, sostanzialmente e plausibilmente recependole per non decisamente significative in senso negativo, ma solo passibili di mere, soggettive perplessità ed illazioni sulla sua personalità, una volta ricondotte a percepiti timori materni a fronte pure dell’elevata conflittualità all’epoca espressa dalla coppia ed inquadrate in coerente strategia difensiva, concordata o comunque non impedita dal suo difensore.

Per il resto le censure che il ricorrente propone si risolvono in rilievi critici o non decisivi, anche perchè si incentrano su valutazioni piuttosto che sui fatti storici che le fondano, o smentiti dal tenore del provvedimento o generici, assiomatici e privi di autosufficienza, essenzialmente appuntati sull’iter argomentativo dell’impugnata pronuncia, come tali inammissibili, anche considerando i richiamati limiti che la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella specie applicabile ratione temporis, pone alla deduzione in questa sede di tale tipologia di vizi (in tema cfr Cass. SU n. 8053 del 2014; Cass. nn. 5133, 7983, 12928 e 13911 del 2014).

Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.

La natura dei rapporti controversi e le peculiarità della vicenda, unitamente al rilievo che il giudizio, inerendo essenzialmente al regime di affidamento e collocamento della prole, si pone in funzione del suo oggettivo, fondamentale interesse, preminente e prevalente rispetto ai contrapposti intenti e difese di ciascuno dei coniugi, legittimano la compensazione per intero delle spese di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.

Ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, comma 5, in caso di diffusione della presente sentenza si devono omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 30 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2016

Autorizzazione vigneti circolare 2016

Mediante la circolare 5852 del 25 ottobre 2016, il MIPAAF ha fissato alcuni principi sul trasferimento delle autorizzazioni per l’impianto di nuovi vigneti. Sussistono però dubbi se tali criteri siano compatibili con i prevalenti principi fissati nella OCM Vino (autorizzazione vigneti circolare 2016).


Con tale circolare   il Ministero ha essenzialmente legato l’autorizzazione ad impiantare nuovi vigneti al soggetto cui essa viene concessa.

Infatti, la circolare stabilisce che:

in caso di vendita, “la vendita di una particella o azienda non autorizza il trasferimento delle autorizzazioni all’acquirente, anche se esse sono state rilasciate per particelle specifiche. Il trasferimento delle autorizzazioni in questo contesto è vietato al fine di evitare ogni forma di speculazione. Colui che vende conserva nel proprio portafoglio le autorizzazioni;

in caso di affitto, “non è ammesso il trasferimento delle autorizzazioni in questo contesto (affitto, mezzadria, comodato) al fine di evitare ogni forma di speculazione. Il locatore non può trasferire le autorizzazioni al locatario anche se esse sono state trasferite per particelle specifiche e conserva dunque in portafoglio le proprie autorizzazioni“.

Tale posizione del Ministero suscita però perplessità, in quanto – pur comprendendo le ragioni che l’hammo indotta, e cioè l’evitare speculazioni – sembra confliggere con il diritto comunitario, secondo il quale l’autorizzazione è piuttosto legata al terreno per il quale essa viene concessa.

Lo stesso concetto di conservazione nel portafoglio appare antitetico rispetto ai principi contenuti nella OCM Unica, secondo i quali il titolare di un’autorizzazione è tenuto – pena l’applicazione di sanzioni – ad impiantare il relativo vigneto entro tre anni dal momento in cui essa è stata concessa.

Versosimilmente il Ministero ha cercato di risolvere, però forse malamente, il problema derivante dalla circostanza che l’Italia non ha ancora adottato alcun criterio di ammissibilità nonché di preferenza nel concedere le autorizzazioni all’impianto di nuovi vigneti, come le norme sulla OCM Unica consentono invece di fare.

 

Il vero rimedio è poi giunto con il successivo D.M. 935 del 13/2/2018, che – fra l’altro – ha introdotto la seguente disposizione (e cioè un quarto comma all’art.10 del D.M. 12272/2015):

«4. Al fine di contrastare fenomeni elusivi del principio della gratuità e non trasferibilità della titolarità delle autorizzazioni (di cui all’articolo 2, comma 3) conseguenti ad atti di trasferimento temporaneo della conduzione, anche nell’ambito del rispetto del miglioramento della competitività del settore nell’ambito delle singole Regioni, l’estirpazione dei vigneti effettuata prima dello scadere dei 6 anni dalla data di registrazione dell’atto di conduzione non dà origine ad autorizzazioni di reimpianto in una Regione differente da quella in cui è avvenuto l’estirpo. La presente disposizione non si applica agli atti di trasferimento temporaneo registrati prima dell’entrata in vigore del presente decreto e per i quali è stata già effettuata l’estirpazione del vigneto, ovvero sia stata data la comunicazione d’intenzione di estirpo».

 

Norma sulla quale non era stato trovato accordo nel contesto della Conferenza tra Stato e Regioni.

Ad ogni modo, ciò è stato fatto sulla scorta del parere conforme dato dalla Commissione UE -Ares(2017)5680223 del 21 novembre 2017 –  la quale aveva confermato che:

“l’affitto di superfici vitate al solo scopo di procedere alla loro immediata estirpazione e al reimpianto in una località differente e molto distante non può essere considerato una normale attività agricola, soprattutto se la superficie oggetto di estirpazione non è stata gestita dall’affittuario per un certo lasso di tempo e se il contratto d’affitto è rescisso dopo l’estirpazione“;

 

A questo punto, dovrebbe verosimilmente venire meno quanto portato dalla circolare citata.

 


autorizzazione vigneti circolare 2016

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